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Una conversazione con lo storico israeliano Ilan Pappé

Pochi storici hanno fatto di più di Ilan Pappé nel dissotterrare la verità su Israele.

Il suo libro del 2006, «La pulizia etnica della Palestina», ha documentato come lo sradicamento di oltre 750.000 palestinesi fosse stato una conseguenza diretta di un piano progettato dai leader sionisti nel 1947. Questo libro rimane senza dubbio lo studio più serio pubblicato finora sulla Nakba (catastrofe), l’espulsione violenta dei palestinesi che ha portato alla formazione di Israele l’anno seguente.

Le critiche senza veli di Pappé nei confronti di Israele hanno fatto sì che venisse isolato da molti dei suoi colleghi israeliani. Quando ha dato il suo supporto alla campagna ,portata avanti da palestinesi, per il boicottaggio accademico di Israele nel 2005, il rettore dell’Università di Haifa lo ha invitato a consegnare le proprie dimissioni. Dal suo trasferimento in Inghilterra, Pappé è rimasto uno scrittore prolifico sul presente e il passato di Israele.

Ilan Pappé ha risposto alle domande di Frank Barat, collaboratore di The Electronic Intifada. Una versione più lunga di questa intervista (in inglese) può essere visionata a questo link:

http://electronicintifada.net/content/we-dont-have-luxury-wait-israel-change-its-own-says-ilan-pappe/12971

Frank Barat: Hai scritto di come la prima intifada palestinese ebbe luogo negli anni 1930. Potresti spiegare il suo significato?

Ilan Pappé: Penso che bisognerebbe tornare indietro persino prima del 1936 per poterla comprendere. Si dovrebbe tornare alla fine del diciannovesimo secolo, quando il sionismo fece la sua apparizione come movimento. Aveva due nobili obbiettivi, uno era quello di trovare un posto sicuro per gli ebrei che si sentivano in pericolo in una crescente atmosfera di antisemitismo, e l’altro era che alcuni ebrei volevano ridefinire se stessi in un gruppo nazionale, e non in quanto religione.

Il problema è iniziato quando scelsero la Palestina come territorio su cui implementare questi due impulsi. Era chiaro, visto che la terra era abitata, che avrebbero dovuto farlo con la forza e che avrebbero dovuto contemplare lo spopolamento della popolazione indigena. Ci volle del tempo prima che la comunità palestinese si rendesse conto che questo era il piano dei sionisti.

Nel 1936, si poteva già osservare l’inizio dei risultati reali di questa strategia: i palestinesi venivano sgomberati dalle terre acquistate dal movimento sionista; i palestinesi perdevano il proprio lavoro a causa della strategia sionista di controllare il mercato del lavoro. Era chiaro che il problema degli ebrei in Europa si sarebbe risolto in Palestina. Questi tre fattori spinsero per la prima volta i palestinesi a dire «faremo qualcosa per questa situazione», e provarono a ribellarsi. Ci fu bisogno di tutta la potenza dell’Impero Britannico per schiacciare quella rivolta. Gli inglesi lo fecero in tre anni; contro i palestinesi, usarono il repertorio di azioni terribili quanto quelle che in seguito vennero usate da Israele per reprimere le intifada palestinesi del 1987 e del 2000.

FB: la rivolta del 1936 fu una rivolta molto popolare; furono i contadini a prendere in mano le armi.

IP: Assolutamente. L’elite politica palestinese viveva nelle città della Palestina, ma le principali vittime del sionismo fino agli anni 1930 risiedevano nelle campagne. Ecco perchè la rivolta scoppiò nelle campagne, ma ci furono anche delle parti delle elite urbane che vi presero parte. In uno dei miei libri ho messo l’accento sul fatto che gli inglesi uccisero e imprigionarono la maggior parte di coloro che appartenevano all’ elite politica palestinese e a quella militare, o all’elite potenzialmente militare. Crearono una società palestinese che nel 1947 si trovò abbastanza indifesa quando le prime azioni sioniste, con la notizia che il Mandato Britannico stava per finire, ebbero inizio. Credo che questo abbia avuto un impatto sulla capacità dei palestinesi di resistere un anno dopo, nel 1948, alla la pulizia etnica della Palestina.

FB: ti sei trasferito nell’Exeter, in Inghilterra, nel 2007, ma spesso torni in Israele. Come si è evoluta la situazione in Israele negli ultimi anni?

IP: il compito di cambiare la società ebraica dall’interno è davvero enorme. Questa società sembra essere sempre di più arroccata sulle proprie posizioni. Se paragoni l’Israele di oggi con l’Israele che ho lasciato, o l’Israele in cui sono cresciuto, la tendenza è di diventare sempre più sciovinisti, etnocentrici, intransigenti – il che ci fa sentire che la pace e la riconciliazione sono molto lontane se la nostra speranza fa affidamento unicamente sulla capacità della società ebraica di cambiare dal suo interno.

FB: Percui dovremmo riporre tutte le nostre energie nel fare pressione dall’esterno oppure dovremmo comunque tentare di far cambiare le proprie opinioni agli israeliani?

IP: il motivo per cui stiamo discutendo di questo è perchè sul terreno la macchina di distruzione non si ferma nemmeno per un giorno. Percui non abbiamo il lusso di aspettare oltre. Il tempo non è dalla nostra parte. Sappiamo che mentre aspettiamo, molte cose terribili stanno succedendo. Sappiamo anche che esiste una correlazione tra queste cose terribili che succedono e la realizzazione degli israeliani che c’è un prezzo da pagare attaccato a quello che stanno facendo. Se non pagano nessun prezzo per quello che stanno facendo, aumenteranno persino la strategia di pulizia etnica. Per cui si tratta di un miscuglio. Dobbiamo trovare un sistema con cui fermare quello che sta accadendo ora, sul terreno, e anche per prevenire quello che sta per succedere. Abbiamo bisogno di un modello potente di pressione dall’esterno. Per quanto riguarda le persone dell’esterno a cui importa, la società civile internazionale, credo che il movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è buono fino a dove può arrivare. Ma non può essere l’unico modello o fattore.

Ci sono altri fattori per far sì che diventi un processo vincente. Uno è la parte palestinese. La questione della rappresentanza deve essere risolta. C’è bisogno di una buona soluzione.

In secondo luogo, c’è bisogno di una sorta di sistema educativo, dall’interno, che si prenda il tempo di educare gli ebrei israeliani su una realtà differente e sui benefici che questa realtà potrebbe portare. Se tutti questi fattori lavorassero insieme, e si avesse un approccio più olistico alla questione della riconciliazione, le cose potrebbero cambiare.

FB: la soluzione a due stati sembra essere l’unica presa sul serio dalle maggiori potenze. Secondo te, come mai si rifiutano di prendere in considerazione l’idea di una soluzione di uno stato unico?

IL: credo che stanno succedendo due cose. Una è quella della rappresentanza palestinese. Le persone che dichiarano di rappresentare i palestinesi della West Bank sono diventate i rappresentanti di tutto il popolo palestinese. Per quanto riguarda la situazione della West Bank, puoi vedere i motivi per cui la soluzione a due stati risulta attraente. Potrebbe significare la fine del controllo militare. Uno potrebbe capire questa posizione.

Ma questo non tiene conto degli altri palestinesi: i profughi, quelli di Gaza e quelli che vivono all’interno di Israele.

Questa è una delle difficoltà. Ci sono alcuni gruppi di palestinesi che credono, secondo me erroneamente, che questa potrebbe essere la via più veloce per far finire l’occupazione. Io non credo che sia così. Il secondo motivo è che la soluzione a due stati ha una certa logica. E’ un’idea molto occidentale, un’invenzione colonialista che è stata applicata in India e in Africa, l’idea della partizione. E’ diventata una sorta di religione fino al punto che non viene neanche più messa in dubbio. Ci si impegna sul modo migliore per arrivarci. E’ sorprendente. Secondo me fa sì che delle persone intelligenti la prendano come una religione della logica. Se metti in dubbio la sua razionalità, vieni criticato.

Questo è il motivo per cui molte persone in Occidente restano attaccate ad essa. Nulla di ciò che potrebbe mai cambiare sul terreno potrebbe far cambiar loro idea. Cinque minuti sul terreno ti fanno vedere che lo stato unico è già presente. E’ un regime non democratico, un regime di apartheid. Per cui devi solo pensare a come cambiare questo regime. Non devi pensare ad una soluzione a due stati. Devi pensare a come cambiare le relazioni tra le comunità, a come influenzare la struttura di potere presente.

FB: l’intellettuale palestinese Edward Said è morto dieci anni fa. Lo conoscevi bene. Potresti dirci come mai i palestinesi lo stimano così tanto?

IP: ci manca moltissimo. Non credo che siano solo i palestinesi a considerarlo una fonte di ispirazione. E’ stato uno degli intellettuali più importanti della seconda metà del ventesimo secolo. Tutti lo abbiamo considerato come una fonte di ispirazione su questioni di sapere, morale, attivismo, non solo in Palestina. Ci manca il suo approccio olistico, la sua abilità di vedere le cose dall’alto in una maniera più completa. Quanto perdi qualcuno come lui, ti trovi delle persone che prendono la frammentazione che Israele sta imponendo ai palestinesi e la considerano come la realtà stessa. Quello che dobbiamo fare è sconfiggere la frammentazione intellettuale, fisica e culturale che Israele ci impone, palestinesi e ebrei, e lottare per tornare a qualcosa di più organico e integro, in modo che la terza generazione di coloni ebrei e abitanti indigeni della Palestina possano avere un futuro insieme.

(thanks to Gianandrea Franchi)

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