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Quando mi fecero fare il militare

 

 

A proposito di Naja Alpina, recentemente alla ribalta delle cronache locali…

 

“A casa si va e non si torna più!…dietrofront mai più!”. Questo si cantava fino alla nausea la notte del congedo.
 Parto dalla fine, dallo stato d’animo con cui si viveva il congedo per far capire quanta poca nostalgia ci possa essere, da parte di chi scrive, per quella esperienza.
Ciò che ha un peso maggiore nel bilancio di quei dieci mesi, è senza dubbio il senso d’inutilità, la sensazione di perdere del tempo.
Era il febbraio 2001 quando varcai la soglia del CAR (Centro Addestramento Reclute) di Merano, avevo 27 anni. In quella caserma trascorsi un mese lunghissimo dove diedi fondo a tutta la pazienza di cui potevo disporre. Un branco di ragazzi dai 18 ai 20 anni col grado di caporale ed il ruolo di istruttore si divertivano a strafare con noi reclute tra una marcia e l’altra.
Il pretestuoso “addestramento” si concluse con una comparsata al poligono dove ci fecero sparare cinque colpi con degli antichi fucili FAL. Solo allora compresi che non mi avrebbero mandato a camminare per le montagne che amavo, cosa che avrei preferito, fosse anche con lo schioppo.
Decisi quindi di prendere questo “affare” della naja con lo spirito dello studioso sociale, di trasformarlo in un faticoso ma interessante viaggio antropologico senza tuttavia rinunciare ad intervenire in qualche modo.
Mi convinsi a presentare la richiesta per diventare, a mia volta, caporale istruttore presso il CAR. 
La stragrande maggioranza delle reclute che chiedeva di rivestire quel incarico lo faceva per far pagare il suo mese di angherie subite agli otto sventurati scaglioni che sarebbero seguiti prima dell’agognato congedo. Era una pratica comunque tollerata, insieme al nonnismo, da quasi tutti gli ufficiali. 
Deciso com’ero ad interrompere questa assurda catena di Sant’Antonio elaborai una strategia d’azione: approfittando della mia età, del grado di caporale e del rispetto che questo naturalmente riceveva dalle giovani reclute avrei trovato il modo di umanizzare l’”addestramento” e spezzare la catena di Sant’Antonio lì dove nasceva ovvero proprio nel mese di CAR.
Speravo in questo modo di influenzare otto scaglioni di “naioni” e di congedarmi con la soddisfazione di aver fatto qualcosa di buono e di non aver buttato via dieci mesi di vita.
Alla fine non mi presero a fare il caporale istruttore e mi parcheggiarono presso un battaglione logistico degli alpini in fase di chiusura.
Si trattava della caserma De Gasperi di Vacile, in provincia di Pordenone, oggi completamente rasa la suolo e trasformata in un parco fotovoltaico.
La caserma in questione era in grado di ospitare, al tempo della guerra fredda, oltre mille soldati e una grande quantità di mezzi. Era stata uno degli snodi logistici che avevano il compito di sostenere le unità preposte alla seconda linea di difesa posta ad ovest del Tagliamento. 
L’organico della De Gasperi, nel 2001, contava circa 150 soldati, un decimo della sua capacità reale.
Passavamo il tempo a gestire lo sgombero dei mezzi e dei materiali verso altre caserme e ad accompagnare l’eutanasia dello stesso battaglione ridotto oramai a due sparute compagnie. 
Posso dire quindi di avere partecipato direttamente alla smobilitazione generale della leva, e di avere avuto il tempo di capire come funzionava anche quando era a pieno regime.
In quanto “studiato” mi assegnarono ad una scrivania presso il comando, mansione molto ambita ma non da me che amavo poco il lavoro sedentario e francamente anche il contatto con gli ufficiali.
Anche in questo caso cercai di cogliere il lato positivo della faccenda ed utilizzai il molto tempo libero ed il computer che avevo a disposizione per redigere uno studio sui bilanci del Pentagono. 
Mi capitava ogni giorno di entrare nell’ufficio del comandante della caserma, un colonnello tronfio e ignorante, per fargli firmare il quotidiano pacchettino di scartoffie e rapporti. Per potermi avvicinare alla scrivania del tipo dovevo salutare col canonico schiocco di tacchi prima la bandiera posta in una pacchiana teca alla sua destra e poi lui. Anche se né lui né il tricolore rispondevano mai al saluto, questa era la prassi da seguire.
Tartassai allora il capitano della mia compagnia affinché mi concedesse di svolgere attività diverse dall’ufficio. Ottenni di partecipare ai corsi di scuola guida per le patenti C e D (camion e corriere). Quelle patenti mi tornarono molto utili perché attraverso i vari servizi di trasporto ebbi modo di sbirciare nello stato di fatto di altre caserme del Friuli sia operative che in fase di dismissione. 
Delle tante trasferte che feci la più divertente fu sicuramente quella in cui accompagnai un capitano della Compagnia Comando e Servizi presso una polveriera nei pressi di Feltre: all’ingresso della struttura, vicino al posto di guardia, faceva bella mostra di sé una Santa Barbara posta all’interno di una grossa sezione di ogiva. La protettrice delle polveriere teneva nel braccio destro Gesù e nel braccio sinistro una bomba. Una simbologia da guerra santa da fare invidia all’Isis…
Purtroppo non avevo con me una macchina fotografica e al tempo gli smart phones ancora non esistevano ma sono certo che quella santa è ancora lì, più attuale che mai. 
In ogni caso quelle patenti mi servirono dopo, una volta congedato, per trovare occupazione. Furono in effetti l’unica contropartita, convertibile al “civile”, di dieci mesi di caserma.
Altro diversivo rispetto alla opprimente attività d’ufficio fu il corso per caporali che il capitano decise di farmi seguire. Ogni caserma doveva formare dei caporali fondamentalmente con lo scopo di potergli conferire la responsabilità della guardia armata.
Durante il corso per diventare caporale presso quella caserma il tenente di complemento che ci assegnarono come istruttore ci insegnò a sparare e ci spiegò, tra le altre cose, come le forze armate servano a difendere la costituzione e la democrazia dai colpi di stato. Mi permisi di fargli notare che normalmente i colpi di stato li fanno proprio le forze armate e lui prontamente e un po’ seccato mi rispose che comunque ogni soldato, se riceve un ordine da un superiore contrario ai principi costituzionali ha il dovere di rifiutarsi di eseguirlo riferendo la cosa al superiore del superiore in questione.
Parliamoci chiaro, il dovere di non obbedienza indicato dal “tenentino” di quel corso suonava come una istigazione al suicidio. Se il comandante di una caserma, di norma un colonnello, decidesse di giocarsela e aderire ad un colpo di stato non ci sarebbero santi: in realtà sarebbe proprio lui a disporre del grado più alto in assoluto in quel luogo ed in quel dato momento e se lui ordinasse rastrellamenti e/o fucilazioni di civili non si troverebbero suoi superiori nei paraggi a cui fare rapporto. 
Per questo la cosa migliore che potrebbe fare un soldato in una situazione limite come quella descritta sarebbe darsi alla macchia alla prima occasione, non dimenticando di portare con se fucile e munizioni ma soprattutto senza preoccuparsi di fare rapporto a chicchessia.
Per fortuna non mi sono trovato mai in condizioni così dure e decisive, in cui ognuno decide davvero come giocarsi la vita. 
E’ capitato però che fossi a capo della guardia della caserma proprio a cavallo dei fatti di Genova, nel 2001. Seguivo l’evolversi delle manifestazioni e degli scontri il venerdì, il sabato, e la domenica.
La televisione, Il Corriere, La Repubblica, Il Gazzettino ossia i quotidiani disponibili allo spaccio erano le uniche fonti a cui attingere. 
Mentre centinaia di persone venivano bastonate a sangue, un ragazzo veniva ammazzato da un carabiniere, ragazzo anche lui ma psicologicamente pompato e gettato nella mischia. 
Il giorno dopo, la domenica, la mia compagna era proprio lì a Genova a manifestare e con lei decine di amici e conoscenti.
Quando quella stessa mattina arrivò il dispaccio dal Comando di Brigata che attivava il primo livello d’allarme presso tutte le caserme pensai subito all’arma che avevo in dotazione, un fucile d’assalto SC70/90 con due caricatori pieni. 
Se dall’allerta si fosse passati all’ordine di uscire si sarebbe trattato, a tutti gli effetti, di un colpo di stato ed io avrei fatto la mia scelta.
Ovviamente non ci fu bisogno di scomodare l’esercito contro il popolo: Genova 2001 fu solamente una grande ma circoscritta manifestazione senza scopi insurrezionali che nelle intenzioni di chi vi partecipò sarebbe dovuta essere pacifica o comunque niente di più di un tafferuglio ritualizzato nei pressi della zona rossa. Anche per questo bastarono i normali reparti celere di PS, Carabinieri e Guardia di Finanza per massacrare vigliaccamente di botte tutte quelle persone e per lasciarne a terra uno.
Durante i tre giorni di scontri, in quel luglio a Genova, si è inceppato lo show mediatico che vuole mostrarci le forze di polizia come protagoniste politacally correct da fiction tv e noi abbiamo potuto vivere e vedere per un istante cosa potrebbero effettivamente diventare ogni giorno, visto e considerato che nessun provvedimento degno di questo nome è stato intrapreso per modificarne lo stato di fatto, visto che la tortura non costituisce reato, visti i casi di omicidio come quello di Cucchi e Aldrovandi coperti da una indegna omertà di corpo e considerato che dal 2004 il 100% del reclutamento dei nuovi poliziotti è riservato a chi abbia svolto almeno 5 anni di mestiere delle armi nelle forze armate. 
Tuttavia non bisogna incorrere nell’errore di pensare che chiunque indossi una divisa sia un macellaio dormiente in attesa di essere autorizzato ad agire. Per fortuna esistono persone nell’esercito e nelle forze di polizia che riescono a ragionare, che cercano di mantenere una certa dignità, che non sono animate da pulsioni squadriste, che sicuramente obbediscono ma solo entro certi limiti.
Ma ciò di cui mi resi ben conto, in quel luglio 2001, è che un esercito professionale riduce di molto il numero di queste persone. E’ una questione oggettiva piuttosto che soggettiva.
Con la leva, i soldati della truppa erano prestati a quel servizio per un anno: la loro vita, la loro occupazione, il loro reddito, i loro orizzonti erano prima e dopo quell’anno. Per loro, in definitiva, la naja era una parentesi.
In un esercito professionale i soldati della truppa fanno di quel servizio un mestiere, il mutuo della casa lo pagano con lo stipendio del ministero della Difesa e con le missioni all’estero, la caserma è parte integrante della loro vita e quella occupazione è spesso l’unica occupazione possibile nella speranza legittima che la ferma “precaria” (volontario in ferma prefissata di quattro anni – VFP4) si trasformi in “posto fisso” (volontario in servizio permanente – VSP). 
Gli arruolamenti vivono una crisi di vocazione nonostante la disoccupazione e ben due ministri della Difesa (Martino e Mauro) sono arrivati a suggerire la possibilità di arruolamento per gli extracomunitari con la carota della cittadinanza. La “ricattabilità” del soldato è l’ingrediente principale della professionalizzazione.
Si è di fatto trasformata la truppa in un corpo sociale materialmente separato dalla società e questo risulta essere uno dei tanti coerenti e gravi arretramenti democratico-costituzionali dell’epoca che stiamo vivendo. 
Il moderno esercito professionale (dal punto di vista democratico in realtà molto più “antico” di quello di leva) ha vinto a tavolino anche perché si è dimostrata la soluzione più collaudata e sicura che gli anglo-americani hanno sviluppato nel corso del secolo scorso. E’ la formula, elevata già da tempo a standard Nato, che garantisce ai governi un’ottima gestibilità del personale militare, anche e soprattutto in caso di morte sul campo dei soldati. La retorica e pomposità dei funerali di Stato accompagna ogni volta la salma del ragazzo di turno con un grande, ipocrita non detto: era un volontario, era il suo mestiere e la responsabilità dei mandanti politici, finanziari ed industriali può così sfumare.
L’estate passò lenta, le giornate erano molto lunghe, ma l’arrivo di un nuovo scaglione con dei ragazzi appassionati di arrampicata mi permise di riempirle: durante la libera uscita organizzavamo puntate quasi quotidiane alle palestre di roccia delle vicine prealpi friulane. Nel frattempo avevo terminato il mio studio sui bilanci del Pentagono e una delle conclusioni a cui ero arrivato fu che un tale livello di progressivo riarmo era come una enorme bolla di capitale finanziario che attendeva di scatenarsi in una devastante speculazione o in una serie di speculazioni “a bassa intensità”.
Come tutti i giorni, quel 11 settembre, finito il servizio, stavo andando allo spaccio per bermi un caffè e dare una occhiata ai giornali. Al posto di guardia notai un insolito capannello di persone addossate alla finestra dell’unica sala con televisione della caserma. Incuriosito mi avvicinai e chiesi cosa stesse succedendo: “che botto! che botto!” mi risposero distratti alcuni commilitoni. Mi feci avanti per vedere di persona: dalla televisione vidi le Twin towers di New York in fiamme.
Dopo soli ventisei giorni compresi che gli Stati Uniti avevano deciso di scaricare la bolla del riarmo che avevo studiato in una grande operazione militare boots on field in Afghanistan come non si vedeva dai tempi dell’intervento in Vietnam.
Trascorsa quella estate densa di accadimenti importanti, esterni eppure tangenti al microcosmo della caserma, gli ultimi mesi di naja passarono lentissimi nell’attesa del congedo che alla fine arrivò non prima di avere consumato tutte le licenze residue. A casa si va e non si torna più…
Non la rifarei quell’esperienza ma sono contento di averla fatta perché ho visto e compreso molte cose. Ho sentito alcuni sottufficiali commentare l’11 settembre con un sonoro “…hanno rotto il cazzo, se la sono cercata…”, ho conosciuto ufficiali progressisti intenzionati a debellare il nonnismo, ho visto marescialli rubacchiare sistematicamente ed altri fare il loro lavoro onestamente, ho compreso il funzionamento della catena gerarchica, ho conosciuto i nuovi soldati professionisti ospitati nella nostra caserma per delle esercitazioni in un vicino poligono contaminato da metalli pesanti…
In generale ho scoperto un mondo che immaginavo monolitico e che invece si è dimostrato vario, frastagliato, contraddittorio, umano.
Ho compreso, nel complesso, come funzionavano le vecchie caserme ai tempi della coscrizione obbligatoria anche incrociando la mia esperienza con quella di altri.
Salvo alcuni reparti operativi e d’elite, il grosso delle forze armate serviva a dimostrare “massa” e la gran parte dei soldati non riceveva particolari addestramenti. Certo negli anni d’oro a tutti toccava un campo estivo e/o uno invernale e qualche tiro a segno in più. Ma quel esercito non era certo uno strumento offensivo a disposizione di una politica estera aggressiva.
In Friuli in particolare si dimostrava esattamente per quello che era: una organizzazione ipertrofica, ramificata in ogni angolo di territorio ma sonnolenta ed annoiata, sempre in attesa di un nemico che, già si sapeva, non sarebbe mai arrivato.
Quasi tutti quelli che hanno fatto la naja nell’esercito hanno conosciuto questa regione di confine prestando servizio nella più estesa struttura militare difensiva approntata in Italia dopo il 1945. Si tratta di quella intricata rete di caserme, casermette, poligoni e bunker costruite in Friuli per fronteggiare una inverosimile aggressione dell’Armata rossa, oggi oramai dismesse e lasciate in totale stato di abbandono.
Dagli anni sessanta venne concentrato in Friuli circa il 70% della forza operativa nazionale mentre a partire dagli anni settanta venne costruita una rete frontaliera di bunker con la funzione di “fornelli” per attivare mine nucleari in grado di vaporizzare una consistente porzione di territorio regionale. Ecco perché parlo di inutilità quando mi riferisco alla dimensione elefantiaca delle difese tattiche predisposte: un conflitto tra i due blocchi non si sarebbe risolto con eroiche schermaglie a colpi di fucili d’assalto, mitragliatrici e carri armati ma molto più rapidamente con la detonazione di ordigni nucleari tattici e di testate nucleari strategiche su entrambi i fronti.
Le incontenibili servitù militari che necessariamente accompagnarono questo processo di militarizzazione furono attivate utilizzando una legge fascista del 1931 ed arrivarono a sommergere il 40% del territorio regionale con la designazione delle così dette “zone militarmente importanti”. I pesantissimi vincoli e le ipoteche che quella legge poneva, unite al totale disinteresse dei comandi per il territorio bloccarono lo sviluppo socio-economico di una regione già marginale come il Friuli e spinsero in più occasioni al confronto diretto popolazioni ed enti locali da una parte e la sprezzante ragione atlantica dall’altra. Solo nel 1976, con l’approvazione della Legge 898, questo peso venne appena alleggerito costituendo il Comitato misto paritetico Regione/Autorità militare e cancellando il vincolo di “zone militarmente importanti” su 29 comuni. Ma soprattutto, fu sempre nel 1976 che questa elefantiaca pressione militare restituì a se stessa ed ai territori un po’ di senso (forse l’unico) quando si dimostrò insostituibile nel soccorso e nella rimozione delle macerie causate dal terremoto che colpì il Friuli proprio quel anno. 
Ad eccezione di questo uso prezioso restituito allora al territorio più militarizzato d’Italia, le forze armate erano e sono organizzate per seguire le esigenze strategiche della Nato e degli Stati Uniti. Vi sono tuttavia due sostanziali novità peggiorative: oggi le forze armate professionalizzate sono la chiave di volta di una devastante belligeranza neocoloniale e non sono minimamente in grado di intervenire nei disastri ambientali con la stessa capacità e dimensione che potevano esprimere quando si basavano sulla leva.

Gregorio Piccin

tratto dal libro “Frammenti sulla guerra. Industria e neocolonialismo in un mondo multipolare”, ed. KappaVu

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4 Comments

  1. Bagnariol Roberto ha detto:

    Una puntualizzazione: la caserma di Vacile era molto fuori Spilimbergo, come la maggior parte delle caserme del resto; quando ero bambino mi ricordo che sulla strada stretta e buia quasi ogni anno ci lasciava la pelle qualche militare che si incamminava in libera uscita verso il borgo investito dalle macchine. Per ovviare all’inconveniente fu costruita una pedonale……pronta quando ormai molti giovani avevano l’auto di proprietà. A quel punto le auto venivano parcheggiate pericolosamente sui bordi della strada: genialmente fu costruito il parcheggio di fronte alla caserma……pronto poco prima che la si chiudesse!
    Come buttare i soldi!

    • Gregorio ha detto:

      Guardala da questo punto di vista: la recinzione in cemento è tornata buona per il parco fotovoltaico ed il parcheggio è oggi utilizzato per gli esami di scuola guida (motorini e scooter). Poteva andare peggio…

    • Gregorio ha detto:

      In effetti sarebbe necessaria una chiara posizione contro Nato, basi straniere, missioni di guerra/aggressione e quindi Libro Bianco della Difesa che avvalla e rilancia tutto ciò come una inderogabile necessità strategica. Ma il problema è che Sinistra Italiana è schiacciata su questa sciocchezza dei Corpi Civili di Pace/Dipartimento di Difesa Civile che non mette minimamente in discussione il modello di difesa in quanto tale, l’adesione alla Nato ne tanto meno la presenza di basi straniere sul nostro territorio.
      Anzi in una proposta di legge di Marcon (SI) sul tema si propone di agganciare lo stipendio dei Caschi Bianchi a quello dei militari professionalizzati, intendendo con ciò creare un fittizio binario “nonviolento” da affiancare a quello bellico. Grande fuffa sotto il cielo (buona fede, mala fede? ognuno tragga le sue conclusioni).
      La stessa Cgil vorrebbe botte piena e moglie ubriaca: da una parte attacca il Libro bianco per la difesa sulla concentrazione di potere inusitata conferita al Capo di stato maggiore e sulla riduzione del personale civile, dall’altra con la Fiom propone una ricapitalizzazione di Finmeccanica sposando la linea del management che ha sinora dismesso/ceduto importanti e strategici settori civili (trasporti ed energia) per puntare tutto sull’hitech militare…
      La realtà è che intorno al processo produttivo bellico c’è un formidabile muro di gomma eretto anche da insospettabili “forze amiche”, il dibattito su questi temi è praticamente inesistente o considerato secondario.
      Si studiano troppo poco i documenti ufficiali e si oscilla tra un approccio esclusivamente contestatario/massimalista (tipo abolire gli eserciti…) e uno davvero ridicolo (fermiamo le guerre con la prevenzione nonviolenta e l’interposizione dei Caschi bianchi).
      Manca la volontà di concepire una riforma strutturale del comparto della difesa che sia organicamente agganciata all’industria di riferimento così come alla politica estera e commerciale…
      Se ne parla ampiamente nell’ultimo lavoro che ho curato (compresa analisi approfondita del Libro bianco della difesa): http://shop.kappavu.it/?product=frammenti-di-guerra-industria-e-neocolonialismo-in-un-mondo-multipolare

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