Non mi era ancora capitato di andare a Kobane fino ad ora. La citta’ simbolo della resistenza contro i fanatici barboni dell’Isis, che ha meritato I titoli dei principali media internazionali e dove i combattenti e civili kurdi hanno perso centinaia di compagni riuscendo a respingere l’attacco di quei criminali mantenendo vivo il principio e il metodo di governo a cui il movimento si ispira.
Kobane, citta’ ferita non solo nei suoi abitanti, ma anche nella sua stessa struttura, bombardata senza pieta’, ma che perlomeno si e’ risparimata la sorte capitata a Raqqa di essere presa di mira dalle bombe degli aerei. Questo ha fatto probabilmente la differenza tra il livello di distruzione tra l’una e l’altra citta’.
Sono passati mesi ormai da quando quell’orribile bestiario umano e’ stato ricacciato e la Siria, quasi tutta, si e’ liberata dalla maggior parte di questa gentaglia. L’intera Siria, intendo, non solo la parte ad oriente dell’Eufrate. Ci si dimentica spesso che se da una parte la coalizione ha sconfitto l’Isis, dall’altra e’ successa la stessa cosa grazie ad altri combattenti che hanno ottenuto lo stesso risultato. Con la differenza che buona parte dei “coalizzati” sono gli stessi soggetti che hanno generosamente finanziato e sostenuto i loro stessi nemici. Non mi pare un particolare da poco.
Sia come sia, Kobane appare subito come una citta’ rinata, le ferite della guerra e dei combattimenti appaiono ora come grandi cicatrici. I palazzi e le case sembrano un po’ come quei monumenti che hanno subito lavori di restauro improvvisati in cui mattoni nuovi e cemento hanno sostituito cio’ che era stato asportato e perduto. Sono poche le abitazioni in cui i segni della violenza sono evidenti e si vedono ancora i danni provocati dai combattimenti e bombardmenti; piuttosto i intuiscono. Le strade sono tutte pulite ed in ordine; se uno non sapesse cosa e’ capitato a questo posto, probabilmente direbbe che qui non e’ successo niente. E’ un po’ questa l’impressione che comunque si prova. Insomma, uno che magari si immagina di trovare sensazioni forti, impatto emotivo notevole, rischia anche di rimanere per fortuna deluso.
La voglia di rinascere di ricominciare della gente e’ piu’ forte di qualsisasi impedimento, probabilmente aiutata anche da generosi fondi esterni; viene da pensare che qui, a differenza di altri luoghi, di soldi ne siano arrivati a valanghe. Ricostruire costa, e ricostruire cosi’ velocemente significa che qualcuno, soprattutto chi li aveva o chi e’ riuscito ad accappararseli, deve aver investito parecchi capitali. Capita spesso che in situazioni di dopoguerra non si badi molto su come la grana arriva, quanto piuttosto se arriva. Non si ha pero’ la sensazione di trovarsi di fronte all’ennesima speculazione edilizia che tira su palazzoni e interi quartieri come funghi, questo a Kobane per ora e’ stato risparmiato.
Il centro e’ movimentato, in giro ci sono molti giovani che sfoggiano tagli di capelli in stile “giocatori di calcio”; moderni insomma. C’e’ molta voglia di dimenticare cio’ che e’ stato, di modernizzarsi secondo i modelli di riferimento occidentali. Non solo qui a Kobane, ma anche dove i soldi si trovano piu’ difficilmente c’e’ questa voglia di scimmiottare i modelli che la tv offre. Il venerdi’ io vado puntualmente dal barbiere, anche se non qui a Kobane; quel quarto d’ora (due minuti taglio capelli e resto per la barba) rappresentano un vero momento di relax. I negozi da barbiere sono sempre pieni soprattutto di giovani i cui tagli, per l’appunto, scimmiottano le mode piu’ in voga e il loro numero (delle barberie) e’ incredibilmente alto. Stiamo aspettando che si aprano i negozi di tatuaggi… La guerra qui e’ finita, sempre che non ci siano sempre possibili colpi di coda, tutti sperano nello sviluppo e nel migioramento del tenore di vita, nuovi affari, soldi, fretta di uscire da una vita stentata. In mezzo a tutto cio’, si nitravedono pero’ segnali alquanto inquietanti e che fanno nascere parecchi dubbi. Qui a Kobane si cominciano a vedere gli stessi macchinoni che si vedono in esuberante abbondanza nel Kurdistan iraqeno dove praticamente il concetto di utilitaria non esiste, dove c’e’ una concentrazione di automobiloni a 6 ed 8 cilindri che non si capisce come possa essere giustificato e dove il sogno di un Kurdistan realmente democratico e’ naufragato nelle acque di una gestione del potere clanistico.
Ecco, Kobane e’ l’unico posto da queste parti in cui cominciano a girare questi transatlantici su quattro ruote. Non si capisce bene se si tratti di un segnale positivo, e certamente per alcuni versi lo e’, oppure se rappresenti quella che spesso e’ la normalita’ del dopoguerra. Si sa che nelle intenzioni dei donatori internazionali quel fiume di danaro che fanno arrivare dovrebbe servire allo sviluppo, ai piu’ bisognosi, ma altrettanto spesso di quei soldi ai poveracci non rimangano che le briciole. Si sa che le strade per l’inferno sono lastricate dai migliori principi…
Il fatto che l’unico albergo della citta’, per ora perche’ uno nuovo di palla e’ in costruzione, sia stato ricavato da una scuola, provoca una sensazione di gia’ visto in altre simili situazioni, quando per inseguire miti di presunto progresso, si confonde la proprieta’ pubblica con quella privata agevolandone la svendita quando non la concessione gratuita. Basta avere ottimi agganci.
Ad occhio le scuole dovrebbero servire ad altro e da quello che si vede in giro dal grande numero di ragazzini, in maggioranza maschietti, che lavorano presso negozi, officine, botteghe di artigiani, l’abbandono scolastico dovrebbe rappresentare un grosso problema. In un paese di tradizione musulmana come e’ la Siria, vedere che la maggior parte di chi va ascuola, principalmente la scuola dell’obbligo, pare siano le bambine, la dice lunga su cosa sia rimasto del sistema scolastico locale. C’e’ da sperare che si tratti di un breve periodo di transizione e che si trovino la capacita’ e i fondi necessari per recuperare quel poco di buono che il regime garantiva almeno a livello di istruzione e di servizi. Magari cercando di puntare sul sistema pubblico e non cadere nella trappola dell’illusione che il mercato e duqnue il privato, sia in grado di autogestirsi trovando improbabilli equilibri che si sono rivelati fallimentari ovunque. Magari anche cercando di capire che insegnare solo il kurdo mantenendo l’arabo praticamente come lingua straniera, non e’ una scelta troppo lungimirante. Certo, senza andare troppo lontano, sarebbe il caso di pensare anche a come si sta riducendo la nostra italica, di scuola, ma questo e’ un altro discorso.
E’ forse sarebbe ora di recuperare quei principi che in Rojava si professavano come comuni e diffusi e che ultimamente appaiono piuttosto appannati. Cio’ che si vede in giro, appunto, non lascia eccessive speranze.
Docbrino