Per la strada principale di Hebron, – Shuhada street: deserta striscia d’asfalto che la taglia in due, fiancheggiata da vecchie botteghe chiuse e abbandonate per il divieto di passaggio ai palestinesi -, da una grossa macchina ferma davanti al centro di cultura ebraica, scende una delle famiglie dei circa cinquecento coloni israeliani insediati nella città (160.000 abitanti, la più grande della Cisgiordania, nel distretto più a sud). Colui che sembra il capo è un uomo anziano, robusto, dalla folta barba bianca, cappello nero a larga tesa, camicia bianca, calzoni neri, filatteri. E pistola al fianco.
Questa pistola la dice lunga sul clima politico e umano nell’antica città (la cui fondazione è menzionata nella Bibbia!).
Un altro segno di questa semiotica dell’odio colpisce come un pugno quando, per arrivare alla sede del Comitato Popolare, attraversiamo un pendìo di antichi ulivi dal grosso tronco contorto. Sono tutti bruciati. Dai coloni. Su pochi soltanto, spunta ancora qualche ramo verdeggiante, che vuol vivere a tutti i costi. Come i palestinesi.
Terzo segnale nella zona del mercato della città vecchia, le cui strette vie sono coperte da fitte reti di ferro. Alle nostre domande, gli amici di Hebron rispondono che, essendo i piani alti di queste antiche case occupate da coloni, costoro gettano in strada ogni sorta di oggetti e anche pietre, che infatti vediamo sospesi nelle reti.
Hebron è l’unica città palestinese con un insediamento di coloni israeliani al suo interno, che ne provoca la spaccatura in due. Le nostre guide hebronite non hanno potuto accompagnarci nella camminata lungo questa strada ma, a prezzo di un giro tortuoso, hanno dovuto andarci ad aspettare nella città vecchia.
Forte è il contrasto fra questa larga strada completamente deserta con le sue botteghe dalle saracinesche arrugginite – in cui abbiamo incontrato solo il colono armato e la sua famiglia, un ragazzo con riccioli rituali, frettoloso, magro e imbronciato e qualche soldato stravaccato su una panchina, col grosso mitra sul ventre – e la vivacità del Suq, con i suoi bambini curiosi, i bottegai cerimoniosi davanti alle loro botteghe, variopinte e odorose. Vivacità interrotta brutalmente dai chek point, uno dei quali costituito da sbarre di ferro girevoli, subito aperte per noi ‘turisti’, chiuse davanti a una fila di locali: il nostro amico di Hebron ci dice che i soldati aprono quando vogliono, a capriccio.
Questa situazione data da quando nel 1994 Baruch Goldstein, un estremista israeliano, uccise ventinove palestinesi mentre stavano pregando nella moschea di Abramo. L’esercito israeliano, temendo rappresaglie contro i coloni residenti ad Hebron e dintorni, chiuse le strade ai veicoli palestinesi e poco più tardi Shuhada Street, principale via del commercio urbano, fu proibita ai palestinesi, che tuttora non possono neanche attraversarla a piedi. Fu costruito un muro persino dentro l’edificio in cui la tradizione pone la tomba del patriarca Abramo. La città fu allora divisa in due zone: H1 governata da Israele, ovvero dai coloni, e H2 governata (per modo di dire) dall’Autorità palestinese. A Hebron oggi ci sono 122 chek point.
Un paradosso tipico della situazione palestinese, per cui un comportamento individuale o collettivo israeliano contro i palestinesi porta a un aggravamento della condizione di quest’ultimi in nome di quello che sembra essere il vero dio d’Israele: la sicurezza. La sicurezza è un’altra faccia della ricerca ossessiva e paranoica d’identità e quindi di rifiuto dell’altro. Il palestinese è l’altro per eccellenza, l’altro che sta fuori dalla porta di casa. I palestinesi, invece, sembrano sfuggire, almeno in parte, per quel che ne so, a questa logica dell’odio. L’essere quelli che stanno fuori dal muro, i più vulnerabili e, finora, i perdenti, da oltre sessant’anni, dà forse loro, attraverso l’esperienza quotidiana di un conflitto che coinvolge la totalità della loro esistenza e che li obbliga quindi a ricercare e a costruire anche degli elementi positivi nella loro vita, perché senza un raggio di gioia non si vive, la capacità di capire che non ci si può chiudere nella mera difesa di un’identità. Questo mi è apparso, nelle persone che abbiamo incontrato e con cui abbiamo parlato durante il viaggio.
Siamo ospiti a pranzo nei locali del YAS (Youth Against Settlements) – che fra molto altro, lotta per aprire Shuhada street -, in cui operano anche due ragazze cooperanti europee: una casa sulla collina, da poco strappata agli israeliani, servendosi una volta tanto delle loro stesse leggi (c’è anche questo aspetto defatigante ma talora utile della lotta legale), dietro a cui c’è una casa di coloni, circondata da una rete con postazione militare.
Issa Ambro, arrestato decine di volte, ci dice che senza un intervento esterno l’occupazione non finirà. “Il mondo non può essere così cieco. Israele non difende la sua esistenza, ma opprime un altro popolo, producendo violenza, miseria, deprivazione. Ci vuole ridurre allo stadio primitivo. Noi facciamo una lotta non violenta e crediamo in una legalità umanitaria” (appunti e parafrasi).
Dal terrazzo della casa si apre una visione panoramica sulla città, in cui spicca il nastro deserto di Shuhada street che taglia nettamente in due la massa compatta delle case. Sulla destra, in cima alla collina che domina la città, si notano un’alta torretta militare israeliana e la sagoma di un gigantesco candelabro a 9 bracci (Hanukkiah), uno dei simboli pubblici dell’ebraismo.
Ci mostrano dei documentari, girati da loro, sulla violenza con cui sono trattati gli abitanti palestinesi di Hebron. Colpiscono in particolare i grossi furgoni con cisterne d’acqua che viene sparata sulla gente. Non è semplicemente acqua. Si tratta d’un liquido fetido, nocivo se deglutito. Il controllo dell’acqua ‘vera’, peraltro, tanto più preziosa in una terra in parte arida e anche desertica, costituisce, come è noto, una delle principali forme di dominio degli israeliani sui palestinesi. Ancora, il rapporto fra l’impossessamento dell’acqua sorgiva e il getto di acqua velenosa colpisce con la forza violenta di uno dei tanti contrasti così netti in terra palestinese.
Gian Andrea Franchi