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STORIA DI UN IMPOVERIMENTO OPERAIO

Sono entrato nel mondo del lavoro nel Giugno del 1988, ereditando una serie di diritti, conquistati dalla generazione lavoratrice precedente, che consentivano ad un operaio di poter vivere un’esistenza dura ma dignitosa, permettendosi di realizzare i piccoli sogni nel cassetto: costituire una famiglia, acquistare una casa, di tanto in tanto distrarsi con qualche svago. Nell’Ottobre del 1993, subito dopo aver concluso il servizio militare obbligatorio, sono stato assunto alla Natuzzi ed ho imparato a produrre divani. All’epoca lo stato sociale aveva già subito qualche battuta d’arresto, l’anno prima, infatti, era stata abrogata la cosiddetta scala mobile, quel sistema macroeconomico fondato sull’indicizzazione delle retribuzioni al tasso d’inflazione. Così, ciò che era un diritto acquisito, ovvero l’adeguamento automatico della paga dei dipendenti al crescente costo della vita, diventava solo un dato da rivendicare verso i datori, riuscendo, solo dopo aver attuato scioperi e concesso qualche sconto, ad ottenere parte dell’aumento spettante. Purtroppo, il depauperamento del welfare state è continuato anche negli anni seguenti, il diritto ad andare in pensione veniva, ad ogni riforma susseguitasi, procrastinato ad un età sempre più avanzata e con un importo relativamente inferiore, sono state introdotte nuove tipologie di assunzione, con l’unica caratteristica comune di rendere il rapporto di lavoro occasionale ed incerto, fino ad affermare il paradosso che per favorire l’occupazione bisogna facilitare la possibilità di licenziare.

Il risultato di queste politiche è stato una diminuzione dei consumi paragonabile solo a quella del secondo dopoguerra e un tasso occupazionale al minimo in tutto il paese. Da questo ne è conseguito un effetto non anomalo in economia: tanto più la forza lavoro è frammentata, precaria e teme la disoccupazione, tanto meno sarà rivendicativa nel pretendere ciò che gli è dovuto, perdendo potere d’acquisto a beneficio del profitto. Profitto che poi si è rivelato conveniente reinvestirlo in rendita finanziaria, piuttosto che nella produzione ed economia reale.

Non mi sorprende, pertanto, che siano le indagini compiute da una fonte autorevole come la Banca d’Italia ad asserire come nel nostro paese, negli ultimi decenni, si sia allargata a dismisura la forbice della disuguaglianza sociale, giungendo ad una situazione in cui il 10% della popolazione più ricca possiede il 45% dell’intera ricchezza nazionale netta, a fronte del 50% più povera che ne detiene soltanto il 10%.

Nei primi anni di lavoro alla Natuzzi, non davo molto peso alle già citate vicende politico-economiche generali. D’altronde sembrava a tutti aver trovato l’agognato posto fisso. Il lavoro straordinario al sabato, poi, era una costante, ma molto spesso anche durante i giorni infrasettimanali. Tutto ben retribuito ed anche incentivato, senza che a nessuno venisse mai il sospetto che un giorno sarebbe arrivato un periodo di crisi. La manodopera molto giovane e fresca che assicurava un’alta produttività, un cambio favorevole alle esportazioni come era garantito dalla svalutatissima Lira ed anche ingenti finanziamenti pubblici, permettevano a Natuzzi di vendere sui mercati, soprattutto quelli nord-americani, un prodotto abbastanza competitivo per il suo peculiare basso costo.

Ma lo stesso imprenditore, verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso, capì che gli stessi fattori determinanti l’ottimo ritorno economico degli investimenti fatti nel territorio murgiano, si andavano esaurendo. Ora conveniva puntare su altri tavoli. Quindi, cominciò la delocalizzazione verso la Cina, l’Europa dell’est e il Brasile. Nel Gennaio 2004 fu aperta la prima procedura di Cassa integrazione, questa ha successivamente assunto carattere permanente, anziché quello proprio di temporale, ed ha coinvolto un numero di volta in volta maggiore di lavoratori.

La mia ultima busta paga è stata di 795 euro ed ho il timore che sia anche l’ultima, la Natuzzi, infatti, a fine Giugno scorso, ha annunciato il licenziamento di 1726 unità tra operai ed impiegati, circa 2/3 dell’organico complessivo italiano. Nello stesso periodo, mentre i lavoratori erano presi dalla disperazione di rimanere senza occupazione in un territorio dove c’è solo il deserto produttivo lasciato da altri salottifici e contoterzisti, le azioni della società salivano allo storico valore di 2,35 dollari nella prestigiosa Borsa in cui sono quotate: Wall Street. 

Negli ultimi giorni sembra si sia aperto qualche spiraglio per evitare i licenziamenti. L’azienda, infatti, starebbe valutando l’idea di riportare negli stabilimenti murgiani la produzione di un marchio, non di alta gamma, dalla Romania. La contropartita che otterrebbe, però, dovrebbe essere, oltre ad una altra iniezione di soldi pubblici somministrati con qualche escamotage come la costituzione di una New.co, condizioni di lavoro il più possibile prossimi a quelli dei rumeni.

Ricordo con molta nostalgia quando nel lessico natuzziano i termini più abusati erano: premialità, insieme, collaboratori, mentre attualmente sono esuberi o razionalizzazione e il tema ricorrente è sempre: il costo del lavoro in Italia è troppo alto da non permetterci di continuare a produrre in loco. Strano però che nei paesi dove il costo del lavoro è ancora più alto, generalmente corrisponda un tasso di disoccupazione inferiore.

 

Altamura 3 Ottobre 2013

 

Felice Dileo operaio cassintegrato Natuzzi, futuro disoccupato

 

La precedente testimonianza personale è stata offerta alla tappa di Altamura della campagna “Dichiariamo illegale la povertà”, a cui ha partecipato Riccardo Petrella (docente emerito di economia all’Università cattolica di Lovanio in Belgio e già Presidente dell’Acquedotto pugliese). La stessa ha assunto il proposito di evidenziare, molto sinteticamente e nei limiti dei 5 minuti,  parte delle cause ed effetti funzionali alle trasformazioni economico-sociali avvenute nel nostro paese, astenendosi dall’avanzare ogni eventuale possibile soluzione.

 

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