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Se vent’anni vi sembrano pochi…

Non mi pare così strano che il ministro della Difesa Mario Mauro proponga l’ingresso degli immigrati nell’esercito con la “carota” della cittadinanza: già il suo omologo Antonio Martino faceva analoga proposta almeno una decina d’anni fa mentre questa “novità” completerebbe coerentemente la realizzazione del Nuovo Modello di Difesa.

Giulio Marcon, su “Il Manifesto” del 1° gennaio, avvertiva che con una possibilità del genere le nostre forze armate diventerebbero molto simili a quelle statunitensi ma la realtà è che sono già state riorganizzate sul modello anglo-americano da almeno vent’anni. Il reclutamento della truppa volontaria, infatti, è sempre avvenuto attingendo dalla disoccupazione, tra le classi sociali più disagiate e non a caso principalmente nel mezzogiorno. Nonostante questo serbatoio sociale sia mantenuto piuttosto capiente le forze armate sembrano essere sempre al limite di una crisi di vocazione ossia hanno serie difficoltà ad assicurarsi l’avvicendamento ed è per questo che periodicamente si ripropone l’ingresso degli immigrati nelle fila militari. Come per gli F35, sarebbe anche questo un chiaro segno di “modernità” e di “responsabilità” verso i nostri alleati.

Il nuovo esercito professionale è stato realizzato per fornire il contesto giuridico adeguato alla necessità di muovere direttamente la nostra forza militare per difendere o acquisire linee di rifornimento energetiche e materie prime e per difendere i nostri interessi strategici.

Il nuovo esercito professionale è stato quindi organizzato per poter essere integrato nel sistema operativo NATO ossia per poter essere proiettato ovunque nel mondo in un nuovo contesto operativo multinazionale interforze.

E’ chiaro che di fronte a queste esigenze un soldato la cui ferma era di dieci mesi ed il cui status giuridico ne impediva l’invio all’estero (se non volontariamente) era sostanzialmente inutile ed inadeguato.

L’esercito professionale trae quindi il suo stesso senso d’esistere dall’essere impiegato come corpo di spedizione e occupazione con la missione di presidiare (e combattere in) territori situati al di fuori dei confini nazionali. Se la politica estera “esige” questo tipo di impegno i generali devono potere disporre dello stesso personale per lunghi periodi, da qui la necessità di una ferma volontaria di almeno quattro anni.

Va ricordato inoltre che per partecipare “responsabilmente” alle aggressioni di pace di volta in volta approntate dalla NATO (sia per interessi economici che per testare i nuovi sistemi d’arma) è necessario tenersi costantemente aggiornati agli standard di questa organizzazione e quindi, in concreto, assorbire le esigenze produttive del comparto militare-industriale privato/pubblico occidentale e sostenere la corsa agli armamenti.

Dopo l’89, quando fu urgente rivedere strategie e dottrine, il modello professionale si impose da subito come modello vincente perché mise d’accordo tutti:

-gli statunitensi lo esigevano per sostenere, anche con le nostre forze armate, la loro espansione militare;

-tutto il centrodestrasinistra (con l’eccezione di Rifondazione Comunista) lo realizzava passandosi il testimone e schioccando sempre i tacchi;

-le aziende del comparto militare-industriale (con i sindacati di categoria confederali in una posizione purtroppo opaca) lo bramavano per ovvie ragioni legate ai dividendi per manager e azionisti;

-persino il terzo settore lo accettò vedendosi accordare l’istituzione di un apposito Servizio Civile Nazionale in sostituzione degli obiettori di coscienza.

L’esercito di leva era un esercito inservibile ai nuovi scopi ed impieghi – decisamente incostituzionali – ed è stato perciò trasversalmente e rapidamente sostituito senza minimamente considerare una sua revisione e riorganizzazione.

 

Fuori da ogni orwelliano neolinguismo possiamo dire che l’Italia si è quindi dotata di uno strumento per fare la guerra e da vent’anni la fa sul serio bombardando, occupando, destabilizzando senza essere minacciata da nessuno e mantenendosi in uno schema di alleanze e servitù militari (coperte ancora dal segreto di stato) obsoleto ma soprattutto piegato all’espansionismo statunitense.

Questo schema è reso ancora più deplorevole dal fatto che abbiamo mutuato dagli anglo-americani non soltanto il modello di esercito ma pure la privatizzazione sostanziale di tutto il dispositivo militare; basti pensare che si fa sempre più largo uso di mercenari e agenzie private, che chi scrive ed elabora le dottrine che indirizzano ricerca ed acquisizioni è sempre organico al settore e che molto spesso ufficiali di alto rango continuano la loro carriera, in abiti civili, come consulenti quando non dirigenti di grosse aziende del comparto della sicurezza.

Da un punto di vista democratico e costituzionale questa dinamica concreta è sommamente pericolosa anche perché si è deciso di trasformare la truppa in un corpo sociale sostanzialmente separato all’interno dell’organizzazione militare dello stato.

Il vero problema è che dopo venti anni di esercito professionale e di corrispondente impegno bellico bisognerebbe fare un bilancio senza censure e torsioni linguistiche. Da un punto di vista riformistico, democratico e costituzionale non è più sufficiente proporre riduzioni di spesa, per quanto doverose, senza elaborare una nuova e diversa organizzazione per le forze armate. Il modo in cui sono organizzate le forze armate non è mai neutro e buono a fare qualsiasi cosa. Ad ogni tipo di organizzazione corrisponde un peculiare uso e l’uso dell’esercito professionale non è di tipo difensivo/territoriale ma offensivo da spedizione (con o senza F35) ed andrebbe abbandonato.

Andrebbe ribaltata la visione distorta che concepisce il mondo come una grande area di interessi strategici da difendere armi in pugno a favore di una nuova visione che lo concepisca come una grande area di cooperazione strategica.

Andrebbe studiato un nuovo concetto di difesa territoriale/ambientale, che metta le forze armate nelle condizioni di gestire direttamente sia aspetti di manutenzione e messa in sicurezza sia soprattutto le ricorrenti e devastanti fasi d’emergenza (incendi, alluvioni, terremoti, dissesto idrogeologico) ossia le vere minacce alla sicurezza dei cittadini.

Sarebbe ragionevole studiare e promuovere la formazione di un nuovo esercito costituzionale, di leva ma con l’opzione dell’obiezione di coscienza, aperto a donne e uomini e che sia organizzato per integrare immediatamente importanti funzioni logistiche e di supporto alla Protezione civile. In questo quadro ci sarebbe tutto lo spazio anche per ripensare alle strategie industriali di Finmeccanica.

Le prossime elezioni europee potrebbero essere la grande occasione per una ricomposizione della sinistra e dei movimenti anche attorno ai temi della riforma delle forze armate, della neutralità, del rispetto della propria ed altrui sovranità nazionale, del disarmo. Temi, questi, collegabili organicamente con quelli della conversione energetica, produttiva e sociale, della rappresentanza, della ricollocazione sullo scenario internazionale, del reperimento delle materie prime e della ridefinizione dei meccanismi di scambio. E’ una questione di “responsabilità”, ma verso i popoli.

 

Gregorio Piccin

 

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