Il morbo del… cairo e la febbre delle sagre a Pordenone (in attesa della malaria?)
23 Agosto 2018

Nostro squadrismo quotidiano

Di ritorno dalla manifestazione di sabato scorso a Trieste, per l’accoglienza e contro ogni discriminazione.

Viaggio in treno per salute mentale, perché da troppi anni ho superato la fase dei “gruppi vacanza Piemonte”: troppe corriere per le manifestazioni romane; troppi viaggi in treno “dormendo” arrampicato sulle retine portabagagli (quando non erano ancora rigide ed inarrivabili); troppi viaggi in macchina per risparmiare tutti insieme due lire, e magari anche qualche insopportabile notte in autogrill a fare autostop, perché sulle retine portabagli s^, ma dormire nel fango delle strade… a tutto c’è un limite individuale.

Bella manifestazione, multicolore e pluralista. Tanta gente, conosciuta e rivista e sconosciuta (per fortuna, sennò pochi saremmo!).

E poi di nuovo in treno, incontrando, come all’andata, compagne e compagni di una vita.

Gli ultimi chilometri, rimango solo. Si fa per dire, visto che sono in compagnia delle mie letture, nelle quali sprofondo.

Ma ogni tanto mi distraggo: tendo a favoleggiare. Il bigliettaio – giovane ma sovrappeso in maniera patologica, probabile sintomo di atteggiamento cannibalesco nei confronti della realtà – accompagna alla porta, a dir la verità senza strepito, un giovane evidentemente di origine straniera, che forse non ha il biglietto. Strano: di solito fanno la multa dopo aver identificato la persona, e poi o paghi direttamente o ti mandano il conto corrente a casa. Magari, penso, avrà scelto di far scendere il ragazzo proprio per non doverlo identificare, magari non ha le carte in regola e così lo metterebbe in rogne.

Ma… c’è un ma.

Il bigliettaio non è solo, c’è uno in divisa che lo aiuta. Non ci bado, sarà un poliziotto o carabiniere in viaggio. Strano, ma fino ad un certo punto. Anche loro, come i rivoluzionari, sono in servizio h. 24… solo che sono di più, non sono più i gloriosi 2tempi del rock”.

Poi, però, più tardi, il tipo in divisa si mette a parlare al telefono.

Maleducato, a voce alta (mica è il solo), e lì non sono io che mi distraggo, è proprio lui che mi disturba. Ed a questo punto, inorridito, sento cosa dice, lacerti di frasi volgari, in cui racconta a qualcuno che “loro” (plurale maiestatis: lui ed il bigliettaio) ne hanno già cacciati due dal treno… “sporchi negri”, “sporchi marocchini”.

Ovviamente la mia interpretazione di quanto avevo visto prima cambia.

Nel frattempo torna il bigliettaio, e la scena si ripete alle mie spalle, con una ragazzina. Visto che anche lei parlava prima a voce alta al telefono (esuberanza adolescenziale, of course, forse un po’ dovuta all’aver iniziato ad assaggiare le bottiglie di birra che poi le vedrò in mano, in una borsa della spesa), avevo già capito che andava dagli amici per festeggiare assieme il sabato sera. Ma, evidentemente, come molti altri giovani, i soldi li aveva finiti per le bottiglie da portare in regalo.

Il bigliettaio ripete la scena dell’espulsione, e lì non c’entra la questione dei documenti: è proprio che l’uomo caccia la gente dal treno, anche una ragazzina per cui proseguire in autostop con lo scuro (sia in un senso di marcia, che nell’altro, per tornare a casa) può essere assai rischioso.

La ragazzina, come ci si immagina farebbe chiunque altro, scappa lungo il treno, per proseguire in qualche modo e finirebbe così. Se non fosse che l’uomo in divisa (che ora, stiamo per arrivare a Pordenone, constato essere una guardia giurata) fa la spia ed aizza il ciccione, che si mette in caccia insieme a lui, dimostrando un’imprevista agilità.

Siamo arrivati in stazione; il treno è lungo, ma mi fermo, perché sono preoccupato e voglio stare a vedere cosa fanno. Non sono l’unico: altri passeggeri, che scendono dai vagoni verso il fondo, indugiano, a dispetto dell’ora tarda e degli sbadigli che si affastellano.

Infine i tre scendono.

La ragazza ovviamente arrabbiata, il bigliettaio che rientra al treno (altrimenti chi lo farebbe ripartire?), ed il tipo in divisa parte ancora in caccia. Mentre la ragazza scappa verso il sottopassaggio, il tipo si affretta, accenna uno scatto, ed a questo punto il nostro militonto-a-tempo-pieno-in-cerca-di-rogne lo apostrofa, rallentandolo. A che titolo sta agendo il vigilante? Come si permette di svolgere funzioni di polizia che non gli competono? Si rende o no conto di commettere un abuso?

Ovviamente l’energumeno replica in linea con l’eloquio forbito di qualche minuto prima al telefono: chi gli ricorda che ci sono limiti all’esercizio della forza pubblica e titoli per esprimerla, e che è un pericolo per la sicurezza dei cittadini mettere in mano armi a gentaglia come lui, è ovviamente “uno d’accordo con quelli là”. Là chi? Il tipo evidentemente, pur passando senza ombra di dubbio tanto tempo di fronte allo speccio, non è evidentemente autocosciente dell’essere un tamarro impresentabile. Sono lombrosiano, anche se critico, e penso seriamente che i due protagonisti della serale caccia all’uomo avrebbero seri motivi per ricorrere sia all’analista che al personal trainer.

In ogni caso, il tipaccio sparisce nella notte. Nel piazzale della stazione non c’è più nessuno da inseguire. Domani comunque lo squadrista sarà forse di nuovo in servizio, con un bel pistolone alla cintura.

Eccola, l’Italia di Salvini. Chi un tempo si sarebbe limitato a sparare cazzate al bar, tra lo sguardo di commiserazione degli amici, oggi si sente autorizzato a fare il giustiziere della notte. Ed oggi le pubbliche amministrazioni, come a Pordenone, li pagano pure, personaggi del genere: come quello che, tempo fa, usava le stesse frasi al telefono dopo aver bloccato – illegalmente – un immigrato africano al mercato.

Caino.

 

 

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