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La politica del luogo

Un aspetto che colpisce, o almeno mi ha colpito, nel viaggio in Palestina è la densità simbolica dei luoghi. Non solo di Gerusalemme. Di tutto il territorio. Simbolico per palestinesi e per israeliani. E non solo. E la potenza politica di questa densità.

Per gli israeliani è nientedimeno che la Terra Promessa in quel libro che è il libro per eccellenza – la scrittura, tà bìblia – non solo per gli ebrei ma per tutto l’occidente, che l’ha incorporato nel Nuovo come l’Antico Testamento. La Terra Promessa, ripromessa dagli inglesi durante il loro mandato (tra il 1932 e il 1948 emigrarono in Palestina circa 350.000 ebrei), si è caricata di un ulteriore fortissima urgenza dopo lo sterminio degli ebrei nella seconda guerra mondiale. Ma il grande peso attuale del piccolo Stato dal nome biblico è dovuto al suo profondo inserimento nel sistema economico-politico di potere mondiale, i cui interessi, in parte, rappresenta e salvaguardia nell’importante regione geopolitica mediorientale. Israele è uno stato a capitalismo avanzato e insieme uno stato etnico (il milione e mezzo circa di palestinesi cittadini israeliani sono esplicitamente cittadini di seconda classe), il cui nazionalismo si alimenta di un’antica tradizione religiosa. Da questo punto di vista, può assomigliare un poco ai paesi dei petrodollari, nei cui confronti però vuol conservare la forma occidentale di democrazia rappresentativa e di organizzazione della società. Nei fatti, è oltre che etnico, uno Stato militare, come si ben vede girando per i territori occupati.

Per i palestinesi la Palestina è semplicemente la loro terra, la terra in cui vivevano da sempre, senza porsi problemi di Nazione o di Stato, come è proprio delle culture contadine, in cui il potere feudale o statuale è semmai l’oppressore. Da questa terra, a partire dagli anni Trenta-Quaranta del Novecento, hanno cominciato a essere cacciati da una forza venuta da fuori, all’inizio tramite accordi con il colonialismo britannico: una forza venuta dall’Europa, non solo fisicamente, ma anche culturalmente, perché il sionismo nasce nella cultura nazionalistica europea.

Attualmente, la metà dei Palestinesi è fuori dalla Palestina, circa 5 milioni. Gi altri si dividono in un milione e mezzo circa nei territori proclamati Stato d’Israele e in oltre 4 milioni in Cisgiordania, dove vivono sotto il peso crescente di un’insopportabile deprivazione che si spinge fino al limite della sopravvivenza. Questo comportamento dello Stato israeliano ha lo scopo, come si sa ed è fisicamente visibilissimo, di costringere i palestinesi, cioè gli abitanti di quel territorio, ad andarsene, rendendogli la vita impossibile con la sottrazione degli elementi che costituiscono le basi simboliche e fisiche non solo di una vita dignitosa, ma della mera sopravvivenza.

Tutto ciò può ricordare la vicenda degli indiani dell’America del nord o del Sud o altre popolazioni sterminate gradatamente per far posto agli invasori – piuttosto che il nazismo, il quale voleva soprattutto eliminare fisicamente le “razze inferiori” residenti sul territorio tedesco, considerate come una degenerazione biologica.

Ma il rapporto israeliani/palestinesi è troppo diverso. Direi che è un unicum storico.

Noi siamo abituati a cogliere gli avvenimenti storici all’interno di una griglia generale. Ciò è indispensabile per una lettura delle dinamiche storiche, per lo stesso concetto di storia basato su un ordine narrativo coerente. Ma, se diventa l’unico strumento di comprensione, può rendere ciechi di fronte alla singolarità delle situazioni storiche, delle sintesi culturali complesse e non definibili con termini generici come, ad esempio, ‘islamismo’, alla loro umanità fatta di corpi, di sguardi, di relazioni quotidiane, di bisogni e desideri. Ciò che differenzia la lettura mediante una griglia generale dall’esperienza della singolarità di una condizione storica è che, in questo caso, la griglia funziona solo in parte per comprendere e agire nel concreto della situazione, legato appunto alla sua singolarità, a una storia, a un gruppo di persone: un villaggio, una città, un territorio particolare, che ovviamente risentono di condizioni più generali, ma che trasformano ed elaborano nella loro specificità dove prendono volto forme nuove.

Il singolare sfugge alle griglie storico-sociali generali. Ma è nel singolare che agiscono le persone, i gruppi, le collettività. Anche nel caso dei conflitti di classe operaia, per riferirci alla grande griglia storica marxista. Ad es. nell’Italia degli anni intorno al ’68, i vari conflitti avevano una loro specificità: l’operaio Fiat del torinese, spesso immigrato meridionale, era diverso dal metalmezzadro tra Veneto e Friuli occidentale e dall’operaio del complesso chimico di Marghera. Certamente, questi centri di conflitto si influenzavano a vicenda e si aiutavano, in un territorio peraltro relativamente limitato, ma poi il conflitto vero e proprio si svolgeva in loco. Infatti, l’arma vincente del capitalista si è rivelata, infine, la sottrazione al luogo, il decentramento produttivo o la modifica del rapporto fra capitale produttivo e capitale finanziario a favore di quest’ultimo. I conflitti di classe degli anni Sessanta-Settanta del Novecento erano conflitti territoriali, legati cioè a un territorio, a una certa tradizione politico-sociale anche a una cultura locale, a un certo tipo di rapporto con la società complessiva. L’industrializzazione di un territorio creava dinamiche sociali diverse nei diversi territori. Credo che il conflitto di classe non sia mai uscito da un ambito nazionale o subnazionale e che quello che si chiamava internazionalismo sia rimasto una retorica o, a suo tempo, legato al potere del paese del socialismo reale per eccellenza, l’URSS e divenuto infatti, finché è durato, un suo strumento.

Alla base del concetto di lotta di classe c’è quello di sfruttamento della forza-lavoro come motore vivo della valorizzazione, cioè della produzione di plusvalore e quindi di profitto. Ma la valorizzazione, pur avendo caratteri comuni ovunque, deve adattarsi alle situazioni locali. Il capitale lo sa molto bene: questa è anzi una delle sue principali caratteristiche e oggi lo si vede in maniera evidentissima nel suo cercare in giro per il mondo le situazioni più opportune al massimo di valorizzazione e quindi di sfruttamento.

Nei luoghi del mondo devastati e ridotti a non luoghi – leggo che nell’agosto del 2014 abbiamo già consumato la disponibilità annuale delle risorse terrestri -, c’è gente che lotta nei luoghi per i luoghi. Il luogo non è un dato fisico, ma culturale. Implica una memoria storica, un simbolico, un lavoro di generazioni. I luoghi quando vengono ridotti a mezzi dello sfruttamento diventano meri fattori economici, funzioni della macchina del capitale e così chi li abita. Muoiono – come luoghi.

Quello che abbiamo visto in Cisgiordania è una lotta degli abitanti di minuscoli villaggi e di lande semidesertiche per ricreare il luogo. In particolare i villaggi di Al-Atwuani e di Nabih Saleh, che abbiamo visitato; abbiamo incontrato anche la tenacia di un gruppo di beduini nel voler continuare a vivere nello stesso posto – un’arida distesa di terra polverosa nella valle del Giordano – dopo la distruzione del loro villaggio di baracche e di buona parte del loro bestiame per opera dei militari israeliani. E abbiamo sentito e visto nei diffusissimi simboli (come la chiave) il continuo richiamo al ritorno nelle loro antiche terre di coloro che vivono nei campi, in un’eterna vita senza luogo, sospesa fra lavori d’occasione e aiuti dell’UNRWA.

In quei villaggi di poche centinaia di persone la lotta per il luogo promuove il cambiamento sociale anche nel rapporto uomo/donna. La presenza attiva delle donne, assolutamente fondamentale per conservare e riprodurre la vita in tutti i suoi aspetti, grandi e piccoli, in queste situazioni-limite sembra portare a graduali uscite dalla tradizione islamica di soggezione all’uomo. Del resto, nel lungo corso della lotta degli abitanti di Palestina contro l’occupante, c’era già una tradizione laica, più diffusa che in altri luoghi del medio Oriente, dato anche il livello molto elevato di alfabetizzazione dei palestinesi. Era attiva in un’epoca in cui in Medio Oriente agiva anche la presenza dell’URSS favorevole al movimento palestinese di liberazione e venne meno negli ultimi decenni in seguito alle sconfitte militari e politiche dell’OLP e al montare dell’islamismo fondamentalista in tutto il Medio Oriente. Una tradizione laica di tipo occidentale, tuttavia, rischia sempre di essere superficiale, frutto d’imitazione o imposizione, come infatti è stato e come si è visto moltissime volte nei paesi islamici, anche se la situazione palestinese è diversa da quella dell’Iraq o della Siria, dove esistevano forti e feroci dittature laicizzanti. Di conseguenza, quello che abbiamo visto affiorare sui dossi spelacchiati o nelle vallette piene di ulivi dei villaggi può essere il lento faticoso inizio di un percorso umano e politico fondamentale per gli abitanti di quelle terre.

Ciò che colpisce, infatti, è la volontà e il desiderio di non arrendersi dei palestinesi che abbiamo incontrato, nei villaggi e nelle città; il loro desiderio di comunicare, la loro vitalità; anche il desiderio di essere felici, che, in alcuni momenti, sembra realizzarsi, in situazioni che sembrerebbero richiedere solo lacrime e rabbia.

In questi casi la rinuncia alla lotta armata nasce, oltre che, fattualmente, dall’incommensurabile sproporzione di forze, dall’esperienza che essa finisce con l’essere speculare all’avversario e quindi produrre gerarchia, maschilismo, consumo di tutte le energie vitali per questo scopo, trascurando la creatività (Freedom Theater di Hebron), l’istruzione (ad Al-Atwuani sono riusciti a far prendere diploma di maturità a 6 giovani), e il desiderio e il piacere della relazione.

L’insegnamento che ci viene da questa gente è condensato nel motto “esistere è resistere e resistere è esistere”. Mettere insieme resistenza al potere, e quindi costruzione di forme associative diverse da quelle ordinate dal e al potere, ed esistenza – dunque anche la quotidianità -, è un tentativo di inventare un tipo di pratica sociale e politica che proietta la dimensione intera dell’esistenza in una ricerca continua e tenacissima di una vita degna di essere vissuta, disposta ad affrontare per questo i rischi più gravi – la morte, la tortura, la prigione -, senza perdere la capacità di gioire dell’essere insieme.

Gian Andrea Franchi

1 Comment

  1. Sebastiano Comis ha detto:

    Certamente gli indiani d’America o gli aborigeni australiani
    (due popoli la cui distruzione fisica e culturale è il non tanto segreto modello che Israele sperava di ripetere)sono ben diversi dai palestinesi, che oltre al comun denominatore della lingua e della religione hanno – salvo la minoranza beduina – una economia da sempre basata sulla agricoltura e quindi sulla terra, l’acqua, il villaggio. E allora resistono attaccandosi a queste realtà materiali, anche se la terra e l’acqua sono sempre di meno e i villaggi sono sempre più difficili da conservare e ricostruire a causa della legislazione urbanistica imposta dall’occupante, fatta di trappole e restrizioni. Ma la pazienza e la tenacia dei palestinesi sembrano infinite.

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