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La legge d’instabilità

Almeno così la chiamerei, naturalmente senza pensare di essere troppo originale. Dove per instabile si intende, ad esempio, quell’elemento martoriato che è il nostro territorio. Oppure, se si preferisce l’equilibrio mentale di chi ci propina come soluzione ai nostri guai, quella bella trovata che è il finanziamento delle grandi opere, previsti dallo “sblocca Italia”, e l’eliminazione di quei piccoli ostacoli che in realtà, non hanno frenato la deriva (termine che cala a fagiolo per l’italico suolo) e lo scempio che si è comunque compiuto grazie ai vari escamotage quali, ad esempio, i vari condoni.
A ben pensarci, viviamo in un mondo fantastico, inebriante nella sua follia; stiamo tutti vedendo gli effetti e piangendoci addosso per i macelli provocati dalle recenti piogge, maledendo la natura “assassina” che non fa altro che ripetere meccanicamente ciò che diversamente non potrebbe fare. Alluvioni, frane, smottamenti, inondazioni, non sono altro che il logico risultato del disastro che noi e la mancanza (o la loro totale inosservanza) di regole abbiamo provocato. Centinaia, probabilmente migliaia, di milioni di euro di danni che non si capisce bene chi dovrà pagare, anzi pare di capire che qualcuno stia pure facendo il furbetto evitando di dichiarare lo stato di calamità che obbligherebbe lo stato a farsi carico dei danni.
Allo stesso tempo, si approvano leggi e decreti che faranno sì che il disastro ambientale non solo non si fermi, ma prosegua indisturbato. Lo “sblocca Italia” va esattamente in quella direzione, finanziando opere inutili (se non alle tasche dei soliti noti e di quelle di chi si renderà “disponibile” a facilitarne la realizzazione) che non faranno altro, assieme ad una diffusa e selvaggia cementificazione, che lasciarci definitivamente sul lastrico e provocare ulteriori futuri disastri. Gli Enti Locali saranno esautorati dalle valutazioni sulla realizzazione delle opere, le valutazioni di impatto ambientale non saranno più necessarie, le autorizzazioni a costruire saranno emesse senza difficoltà e prive dei famosi “lacci e lacciuoli”, definizione di triste memoria.
Dunque, perchè cazzo stiamo lì a smoccolare sull’accaduto e non diciamo nulla sulla sciagura che incomberà presto su di noi? Sarà masochismo?
Sembra di vivere nell’ambientazione di Blade Runner, pioggia continua (mica penseremo che se piove così sia casuale, vero?), perennemente controllati, se protesti di manganellano di brutto, la stragrande maggioranza delle persone che vivono di poco mentre un piccolo plotone di privilegiati si pappa tutto tra i sonori rutti. Altro che Grande Fratello ipotizzato da Orwel; Philip Dick ci calza addosso decisamente meglio e pare assai più profetico.
Niente poi, tra tutto ciò che succede, che ci suggerisca un profondo ripensamento del nostro sistema? Parlo non del dettaglio, ma del modo in cui viviamo, veniamo governati e, perchè no, di come e contro chi ci incazziamo. Vogliamo davvero ridurci come quei poveracci che non trovano nulla di meglio che scendere in strada e accanirsi contro coloro che sono messi ancora peggio di loro? Sfogarci contro chi arriva da noi con il sogno e perché no, la pretesa di vivere un minimo più decentemente di quanto poteva fare a casa propria? Così ci stanno riducendo, scatole da riempire con luoghi comuni e convinzioni lontane dalla realtà che ci impediscono di guardare e riconoscere il vero problema oppure che ci fanno immaginare che tornando indietro, in qualche modo recupereremo quanto perso. Non funziona così, il passato è passato, se cercassimo soluzioni in sistemi che ci potevano garantire una ventina di anni fa, ci accorgeremmo troppo tardi di quanto ciò sia irrealizzabile, che chi ci impone queste gabelle ha scompigliato le carte in tavola e che rimetterle in ordine, in quell’ordine, non è più possibile.
Non illudiamoci che anche dovessimo riuscire a cambiare qualcosa, si possano riprendere le dinamiche del secolo scorso, lo stesso sistema produttivo, gli stessi posti di lavoro. Quel lavoro non c’è più, non qui, ma sempre più nemmeno da qualche altra parte. Dobbiamo ripensare e ripensarci; se non ci sarà un cambiamento radicale, un nuovo modello di sviluppo, la consapevolezza che gli investimenti dovranno andare in una direzione diversa, in un recupero del territorio, verso un’idea di sviluppo completamente differente (e dunque ricerca, nuove tecnologie, filosofie diverse), saremo spacciati. Ovvio che tutto ciò passa attraverso l’eliminazione delle condizioni di privilegio su cui si basa questo nostro mondo e sul rifiuto di accettare meccanismi economici, ma soprattutto finanziari, che sono quelli che ci hanno portato alla rovina, sia nostra di esseri umani che dell’ambiente che ci accoglie. Da lì si comincia, ma c’è bisogno di un profondo ripensamento e di lotte che sappiano individuare il vero obiettivo da conquistare; scendere in piazza sarà sempre più necessario, ma le parole d’ordine da assumere devono essere riviste.
Solo così, mi sa, potremo pensare di uscire da questa melma in cui siamo sprofondati e che continua a trascinarci verso il fondo.
Boh, forse stavolta l’ho sparata grossa….

Bruno Tassan Viol

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