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31 Gennaio 2015
“Il Kurdistan chiama – Kobane a pochi metri” su YouTube, e prossimamente a Pordenone
9 Aprile 2015

La coop Noncello in Kurdistan, tra Diyarbakir e Kobane

Pubblichiamo le corrispondenze dei tre pordenonesi che hanno partecipato nei giorni scorsi ad una missione nel Kurdistan, sia turco (Diyarbakir) che siriano (Kobane). Si tratta di Stefano Mantovani ed Alvise Rossi, della cooperativa sociale Noncello di Pordenone, e di Lucia Zaghet, della Scuola sperimentale dell’attore.

 

Comunicato stampa del Presidente della cooperativa sociale Noncello di Pordenone – in carovana verso Kobane
Urfa 17 marzo 2015 – h 23:30

Sono arrivato a Urfa nel Kurdistan turco con Alvise (socio della cooperativa Noncello) e Lucia (della scuola sperimentale dell’attore). Siamo al confine con la Siria, a circa 40 km da Kobane, con una carovana di osservatori internazionali (una cinquantina di persone in tutto) organizzata da una ONG kurda (Uiki Onlus).
Siamo nelle prime retrovie dell’ennesima nuova guerra assurda, generata probabilmente dalla necessità di creare un nuovo assetto negli equilibri internazionali. Come al solito a pagare il conto sembra essere la popolazione civile.
Siamo qua per vedere e raccontare quello che vedremo, siamo qua per cercare di capire qualcosa.
Non siamo però inviati di guerra: non vedremo nè racconteremo le avanzate o ritirate dell’ISIS, ma le vite e le vicissitudini di chi le guerre le subisce da sempre.
Non siamo qua con la presunzione di essere portatori di aiuti o di civiltà, ma forse per imparare e comprendere quanto sta succedendo. Vorremmo semmai capire se la nostra cultura e questa cultura possano realmente interagire nei termini di costruire vera cooperazione internazionale per il superamento dei conflitti e dei confini.
Visiteremo villaggi e campi profughi, festeggeremo con loro il Newroz (la festa più importante per il popolo kurdo) e proveremo a trasmettervi ogni giorno quanto vedremo.
Al momento non abbiamo molto da aggiungere oltre al comunicarvi che siamo arrivati e la nostra volontà di raccontare.

Ogni giorno cercheremo di inviarvi un report e, dopo il nostro rientro, organizzeremo una conferenza stampa probabilmente tra il 30 marzo e il 1 aprile.

Stefano Mantovani
17/03/2015

Città di Suruc – Incontri

Nei campi profughi, nelle città e nei villaggi non del tutto abbandonati e non ancora riconquistati, la faticosa e quotidiana riorganizzazione continua.
Continua la costruzione mattone su mattone di una pratica di democrazia che ha resistito allo svilupparsi e al degradare dei molti conflitti che riguardano il territorio del Kurdistan.
Questa pratica si basa sulla fedeltà all’etimologia: governo del popolo. E perchè sia il popolo a governare va formato, educato. Non si rinuncia quindi a prendersi cura dei bambini e dei giovani, che sono tanti. A parlare con loro, a organizzare talvolta improvvisando in condizioni difficilissime, scuole, classi di insegnamento.
E perchè siano le persone a governare non va esclusa una buona metà della popolazione. Le donne entrano nel governo e nella gestione della cosa pubblica, non per concessione nè per rappresentare una minoranza, ma perchè uomini e donne non immaginano un’amministrazione che non sia insieme, per il
bene di tutti: uomini e donne. Per dare corpo a questo «insieme», hanno quotato già da tempo nella regione del Rojava una partecipazione maschile al 40%, una femminile pure al 40%, mentre il restante 20% viene affidato sulla base delle competenze e delle professionalità necessarie, indipendentemente dal sesso di appartenenza.
La gestione di ogni quartiere dei campi profughi è coperta da una figura femminile e da una maschile.
Nonostante le ristrettezze e l’estrema emergenza, ogni campo profughi ha una <casa delle donne>, dove esse possono discutere, confrontarsi per la soluzione dei problemi.
Hanno superato tabù e resistenze lunghe secoli, per prendere le armi in una situazione dove il combattere non si distingue dal sopravvivere.
Se la donna è schiava lo è anche l’uomo, dicono le donne e gli uomini del Kurdistan.

Lucia Zaghet

 

Urfa 18 marzo 2015 – h 20:30
Diario del giorno – in carovana verso Kobane

Oggi giornata tra i campi profughi, mentre giungevano le notizie da Francoforte. Parlerò di ciò che abbiamo visto e incontrato, pur sapendo che quanto accade qui, sul bordo estremo dell’Europa, è in fondo interconnesso con le politiche del centro dell’Europa.

Qui sul bordo, attraversando il disastro, ho sempre più l’impressione che, nonostante tutto ci sia qualcosa di straordinario: la dignità, l’umanità ed il rispetto sono ovunque e nei racconti e nei volti di donne, uomini e bambini che affollano i campi profughi, come rifugiati o come cittadini solidali.

Primo passaggio della giornata: nel centro sociale kurdo in Suruc incontriamo in delegazione rappresentanti della municipalità e Fayza Abdi, la Copresidente del Consiglio Legislativo di Kobane. Ci raccontano la storia della regione Rojava e di come la municipalità di Suruc soltanto, senza alcun aiuto dello stato turco, stia gestendo a questa emergenza, ma ci fanno soprattutto una richiesta importante, da divulgare: chiedono che Europa e Turchia si impegnino da subito ad aprire un corridoio umanitario che permetta lo sminamento della città, nonchè il ripristrino delle infrastrutture (energia, acqua, fognature). La popolazione civile sta cercando di tornare alle proprie case e bisogna garantire un minimo di sicurezza e di collegamenti.

Nella città di Suruc ci sono parecchi campi profughi: la stessa dista da Kobane non più di 10 km ed è il primo rifugio che può trovare chi fugge dalle atrocità.
Siamo entrati, anzi siamo stati accolti come ospiti, in due campi profughi: il campo Arin Mixan e il campo Kobane, e devo ammettere che per molti motivi sono rimasto colpito emotivamente: non solo per la visione di questa umanità accampata (neonati, bambini, donne, uomini, vecchi …), ma soprattutto per la loro gestione autonoma e per l’integrazione con la città stessa. Laggiù tutti si sono dati da fare per l’accoglienza, generando spontaneamente un’autogestione diffusa, dove profughi e cittadini si integrano nella cogestione dell’emergenza.

Dopo il momentaneo rifiuto alla nostra richiesta di attraversare il confine e raggiungere Kobane, ci siamo comunque avvicinati al confine siriano fino a quando abbiamo potuto vederla, a 2 km da noi. Oltre un grande prato, sotto le colline in lontananza, Kobane è ridotta ad uno scheletro martoriato. Una postazione militare sopra una collina controlla la linea di un confine impalpabile. Sul prato tra noi e le macerie due ragazzini giocano al pallone.
Un vecchio che ci avvicina ci racconta del disastro, delle persone che scappano via e che appena possono provano a tornare, ma ci racconta anche della loro paura quando, di notte al buio, persone cattive forse dell’isis, forse scortate dai turchi passano di li per entrare in Siria.
Una ragazza vuol sapere chi siamo e poi ci racconta che lei è scappata da Manbij città a 60 km a sud ovest di Kobane dove la popolazione kurda era in minoranza. Li l’intervento dell’isis strategicamente ha messo le etnie l’una contro l’altra, sostenendo la cacciata violenta della popolazione kurda.
Lei conclude con:” Kobane resiste – ma nella mia città non tornerò”

Stefano Mantovani
Urfa 19 marzo 2015 – h 19:00
Diario del giorno – Newroz

Fino a circa 30 anni fa, forse meno, non sapevamo nulla della loro esistenza. Alcuni dicevano che i turchi di montagna erano chiamati Kurdi.
Che la loro storia non avesse nulla a che fare con la Turchia ma fosse una storia a sè, lo abbiamo scoperto di recente, grazie soprattutto alle politiche nazional-progressiste della Turchia, da Ataturk in poi.
Queste politiche, basate sull’unità e la standardizzazione dello stato – nazione, hanno determinato la repressione dell’identità Kurda: dalla lingua al folklore.
Il Newroz è la festa per anni proibita in cui si festeggia il capodanno. In tutti questi anni festeggiare il Newroz in piazza significava scontri con la polizia, arresti, feriti, talvolta morti. Anche in questo modo i kurdi si sono riconquistati il diritto di esistere come tali, anno dopo anno rivendicando l’identità in uno spazio comune.
Questa volta davo per scontato che la polizia turca avrebbe tenuto un profilo basso, tra repressione e provocazioni. Nella situazione attuale, specialmente nelle aree prossime al confine siriano, è preferibile evitare l’apertura di ulteriori tensioni.
Avremmo dovuto spostarci fino a Diyarbakir ma per scelte logistiche siamo andati al Newroz di Urfa.

Polizia, blindati e militari armati ovviamente non mancavano, presenti in massa ma rimasti in disparte.
Il Newroz è stato un bagno di folla dalla mattina al tramonto (17 circa ora locale).
La presenza era variegata e calorosa, ma soprattutto colorata. Non so veramente come descrivere quello che abbiamo visto e vissuto in quanto c’era ben poco di strutturato nella gestione dell’evento, se non l’accensione di un falò prima del tramonto. Il classico saluto all’inverno, comune a molte culture.
Le persone avvolte dai loro colori e costumi si aggregano spontaneamente e ballano al ritmo di uno o due tamburi ed al suono dello zunra, uno strumento a fiato a doppia ancia simile alla bombarda.

Noi? ospiti molto graditi.
Anche qui mi son sentito più accettato, desiderato, voluto che a casa. In molti ci venivano incontro per chiederci chi eravamo, per farsi poi foto con noi e offrirci da bere (rigorosamente chaj) e da mangiare.
Non aggiungo altre cose lascio descrivere, per quello che sarà possibile le foto che allego.
Intanto mi avvio all’assemblea serale per l’organizzazione delle prossime giornate. Soprattuto per capire se ci sono risposte da parte della polizia turca rispetto alla possibilità di entrare in delegazione a Kobane.

Stefano Mantovani

 

Urfa 20 marzo 2015 – h 20:00
Diario del giorno – incontri per capire

Nella nostra agenda erano previsti anche una serie di incontri diplomatici, per avere alcune informazioni sulla situazione e sulle evoluzioni. la giornata di oggi era dedicata a questi.
Abbiamo incontrato Malam Durbu dell’ONG Kurda per i diritti umani – INSAN HAKLARI DERNEGI ed in seguitoYasmine Kilig e Riduan Yauiz, co-presidenti rispettivamente dei partiti democratici curdi DBP e HDP.
L’incontro con l’associazione per i diritti umani ha messo in evidenza alcuni aspetti che riteniamo importanti: Il lavoro svolto dall’associazione con i detenuti Kurdi nel sistema carcerario Turco, che come possiamo immaginare non è certo un luogo in cui i diritti dei detenuti vengono rispettati, in particolar modo se si tratta detenuti politici. Ci hanno messo in evidenza la pratica della tortura, l’isolamento dalle famiglie per cui queste ultime sono tenute volutamente all’oscuro sulle condizioni di salute dei detenuti, e le frequenti morti in carcere per la mancanza di cure sanitarie.
L’associazione, durante la resistenza di Kobane, ha presidiato le frontiere ed ha cercato di fornire una prima assistenza umanitaria a tutti coloro che scappavano dalla città assediata per cercare riparo oltre il confine Turco; questa presenza è riuscita a garantire l’apertura della frontiera per l’uscita dei profughi dalla Siria, mentre polizia e militari turchi avrebbero invece preferito assumere una politica di respingimento piuttosto che di accoglienza. Ci hanno raccontato che più di una volta i militari hanno sparato ad altezza d’uomo anche ferendo gli stessi rifugiati.
La presenza al valico dei volontari di IHD ha prodotto azioni di advocacy e di pressing fisico nei confronti dei militari affinché gli abitanti di Kobane potessero trovare riparo.
IHD è anche presente dall’inizio nei campi profughi per il monitoraggio degli stessi e oggi sostiene le persone che cercano di tornare in Kobane verso ciò che resta delle proprie case.
Abbiamo cercato di stabilire una relazione con loro per capire se in un prossimo futuro si potranno aprire relazioni internazionali di solidarietà per un rientro a Kobane dei suoi cittadini.

L’incontro con l’HPD invece è stato determinante per capire il progetto politico in questa fase: è emersa soprattutto la recente evoluzione del partito democratico Kurdo, che sta cercando di superare il principio della contrapposizione nazionalista. Trenta anni fa il popolo Kurdo cercava di riscattarsi nella storia rivendicando un proprio stato e facendosi portavoce dei diritti e dell’identità della propria etnia. Oggi, partendo dall’idea di una primavera Kurda arriva a rilanciare ad una primavera dei diritti di tutti i popoli e di tutte le culture, per un progetto di integrazione e non di omologazione. Al centro di questo progetto trova spazio con tutta la sua forza la figura delle donne kurde, che riconquistano dignità e protagonismo in posizioni politiche ed economiche, non più subalterne alla figura maschile e relegate nel sistema domestico scollegato al contesto sociale, ma attive e pari nella loro specificità.
Devo ammettere che un po’ mi hanno fatto sognare che un mondo migliore possa esistere.

Stefano Mantovani
Aspettando il 21 marzo – Il Newroz di Diyarbakir
Urfa, 20 marzo 2015

Diyarbakir,
considerata la capitale del Kurdistan turco con i suoi quasi 600.000 abitanti, festeggia domani uno dei Newroz più sentiti. Si attendono circa due milioni di persone.
In queste giornate a stretto contatto con la gente Kurda, abbiamo saputo che di fatto la Festa d’Equinozio di Primavera non rappresenta solo un rito propiziatorio per i futuri raccolti e un rito di passaggio dalla durezza dell’inverno a una più mite e ricca primavera.

La mitologia racconta infatti, in una delle sue versioni, di come, all’incirca nel IV secolo A.C. nelle regioni dell’Iran vivesse un re con due grandi serpenti che gli uscivanodalle spalle. I serpenti si cibavano solo di cervelli di giovani uomini. Pertanto il re doveva sacrificare periodicamente alla voracità dei serpenti i giovani del suo regno.
Dopo tante morti, il cuoco che preparava il triste pasto decise di salvare a sorte almeno uno dei due
giovani, offrendo al suo posto un cervello di capra.
Viveva in quel regno un fabbro di nome Kawa, a cui il re aveva strappato ben nove dei dieci figli che aveva. Quando anche quest’ultimo gli fu sottratto dalle guardie reali, la disperazione e il dolore portarono Kawa il Fabbro a tentare una sommossa a palazzo. La rabbia era così forte e sentita da tutti gli abitanti, che ben presto la sommossa si allargò a tutto il regno.
Ora, il caso volle che ad essere salvato dalle astuzie del cuoco, fosse proprio il figlio di Kawa che per nascondersi fuggì nel vicino monte Zagrov, dove venne accolto dai pastori che per lui accesero un grande fuoco attorno a cui danzarono una intera notte.
Quando giunse loro voce della sommossa che a valle si allargava sempre più, scesero ad aiutarli e insieme riuscirono a sconfiggere il re.
Per festeggiare accesero un altro fuoco, ancora più grande, attorno a cui si strinsero in danza.
Da questo incontro e da questo fuoco, i Kurdi derivano l’origine del loro popolo.

Attorno al fuoco di domani ci stringeremo ancora in danza, per tenere accesa la lotta che i Kurdi da troppo tempo portano avanti per un presente più  giusto.

Lucia Zaghet

 

Urfa 21 marzo 2015 – h 21:00
diario del giorno – norme di sicurezza

Oggi in una giornata di pioggia con un freddo “becco” abbiamo sbattuto il naso sulla porta chiusa del confine.
Siamo arrivati la in 15 con un furgone, sotto la pioggia dopo aver richiesto formalmente l’autorizzazione alla questura turca. Al confine solo militari turchi, blindati e cavalli di frisia. Le prime case di Kobane a poche centinaia di metri. Non si passa.
Sicuramente l’attentato di ieri in Siria ha complicato la situazione.

Il non entrare in Kobane per noi non è un fatto grave di per se, ma l’idea che li, oltre quel confine tenuto chiuso dai militari, ci sia una città “gravemente ferita” che ha bisogno di aiuto per ricominciare a vivere, è un fatto molto grave.
A tutta l’opinione pubblica occidentale ha fatto comodo la resistenza kurda in Kobane contro l’ISIS. Ma Kobane non è un avanposto militare è una città che deve essere restituita alla vita e alla civiltà.
Oggi dopo aver resistito resta li schiacciata tra il terrore e un confine militarmente incatenato.
I cittadini di Kobane stanno abbandonando i campi profughi e stanno tornando alla città, alle volte aspettando giorni per passare, per poi trovarsi tra cumuli di macerie cosparsi dalle mine lasciate dall’ISIS in ritirata.
Ci raccontano di mine trovate nelle case, tra i mobili e nei frigoriferi.
Tutto ciò è doppiamente assurdo. Di ciò abbiamo discusso tra di noi nella giornata di oggi e abbiamo prodotto un documento richiesta firmato dalla delegazione, che verrà inviato al governo turco, alla commissione europea e alle Nazioni Unite.

Non possiamo pensare che la sicurezza oggi sia soltanto tenere chiuso quel confine, crediamo che sia un dovere di tutti impegnarsi garantire e supportare i cittadini che stanno rientrando e vorremmo i paesi occidentali, e non solo, si impegnassero per tale scopo.
Stefano Mantovani

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Il documento concordato con il sindaco di Suruç:

La delegazione italiana della missione di osservatori internazionali per il Newroz in Kurdistan, che aveva con sé un carico di farmaci, oggi (21.03.2015) è stata bloccata al confine turco tra Suruç e Kobane nonostante avesse richiesto l’autorizzazione alle autorità turche. Suruç ospita 6 campi profughi autogestiti dalla municipalità e 1 gestito dal governo turco per un totale di almeno 15.000 persone. Prima della liberazione di Kobane il numero dei profughi era circa il doppio: le persone vogliono tornare alle loro case e poterle ricostruire dopo la distruzione della città da parte dell’ISIS.
Abbiamo constato personalmente, arrivando al confine, che ogni varco verso Kobane è chiuso: non possono passare né gli aiuti umanitari né i materiali per la ricostruzione e il ritorno dei profughi è reso difficile da pratiche burocratiche discrezionali. La stessa municipalità di Suruç chiede da ottobre che venga aperto un corridoio umanitario che garantisca il passaggio di tutti gli aiuti necessari per la città e il cantone. A Kobane in questo momento mancano acqua, fognature e impianti elettrici e il territorio della città è stato minato dall’ISIS durante la ritirata: è evidente la necessità immediata dell’apertura di un corridoio umanitario permanente.

 

Diyarbakir, 21-3-2015 Newroz.

Partiamo alle 6:00 da Urfa per raggiungere Diyarbakir, la città più importante del Kurdistan, per partecipare al Newroz: capodanno curdo, inizio della primavera, festa del fuoco e delle origini del popolo curdo.
Il viaggio è lungo, ma attraversando questa terra dura e senza alberi incontriamo spesso falò che ci confermano la nostra destinazione. Le soste lungo il tragitto sono occasioni di incontro con diverse comitive di curdi che improvvisano balli e canti per riscaldarsi in questa freddissima giornata.

A Dyarbakir la festa non si svolge proprio in centro: hanno scelto lo spazio aperto più grande che avessero a disposizione in città per contenere il fiume di persone che si prevede arrivi: tra i due e i tre milioni di persone da tutto il mondo si muovono per partecipare al Newroz, in barba al recente attentato terroristico dell’isis che ha ucciso decine di persone durante i festeggiamenti ad Hasake in Siria.

Sulla terra vulcanica che milioni di anni fa ha eruttato il basalto di cui è costituita la città di Amida, l’attuale Diyarbakir, oggi scorre una moltitudine di persone che ha la stessa forza di un fiume di lava colorata che nemmeno la pioggia battente riesce a raffreddare.

È la festa di una nazione senza stato e confini che non si chiude in se stessa ma accoglie e si mescola con chi incontra. Decine di persone ci fermano, parlano con noi, anche a gesti, ci ringraziano della nostra partecipazione, ci offrono da bere caj, e da mangiare burek o baclava, vogliono farsi fotografare e fotografarci.
Tutta un’altra cosa rispetto alle rivendicazioni nazionali a cui ci siamo abituati, che si aggrappano al feticcio dei confini per non guardare in faccia al fatto che non esistono più, o che non sono mai esistite.
Tutti quelli che incontriamo ci dicono di essere orgogliosi che siamo venuti dall’Italia per il Newroz. Non posso non pensare al fatto che è stato proprio un nostro governo a rifiutare l’asilo politico a Ocalan e a consegnarlo all’ergastolo del governo turco.
All’una di pomeriggio, accolto da un ovazione, viene letto il discorso di Apo (zio) Ocalan, per una cittadinanza libera del popolo curdo, che ribadisce la necessità della fine della guerriglia armata per avviare un processo di pace duratura in Turchia. Un appello che giunge nel momento migliore dato che è diffuso il pensiero che i curdi, combattendo e respingendo l’isis abbiano difeso la Turchia più di quanto abbia fatto Erdogan in questo frangente.

Alvise Rossi

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Il giorno dopo, in un campo di profughi yazidi:

Viransehir, 22/3/2015

Siamo arrivati in tarda mattinata nella città di Viransehir, perchè le prime ore del giorno sono state dedicate ad un nuovo incontro con la municipalità di Suruc per sottoporre loro il documento redatto in seguito al tentativo, bloccato dal governo turco, di entrare a Kobane il 21 marzo.
Questa è l’ultima tappa del nostro viaggio: visita al palazzo della municipalità di Viransehir e al campo profughi “Ezidi”.
Su diversi muri della città splendono dei murales raffiguranti dei pavoni, simbolo della comunità religiosa degli Yazidi (dal 2003 riconosciuti come di etnia curda) che un tempo abitava quest’area.
Proprio per questo retaggio, quando le truppe dell’IS hanno invaso le zone in cui risiedevano queste comunità, molti fuggitivi hanno cercato riparo proprio a Viransehir. I racconti della loro fuga esprimono una sconfinata ammirazione per coloro che sono riusciti a metterli in salvo: ci parlano di undici militanti del PKK che miracolosamente hanno difeso il passaggio di centinaia di Yazidi, anche se quattro di loro sono caduti in battaglia. Per loro questi undici sono degli eroi.
Gli Yazidi sono considerati pagani dall’IS, e per questo motivo non sono degni della protezione che il corano concede ai cristiani ed agli ebrei: anche se si convertono possono essere uccisi, ridotti in schiavitù e venduti, ed i rifugiati ci hanno raccontato che è accaduto proprio questo, e che attualmente molti loro familiari sono schiavi, soprattutto donne e bambini.
Il governo turco non concede alcun aiuto per i campi profughi gestiti dalle municipalità curde, le quali possono contare solamente sulle proprie forze; Viransehir è più grande e ricca di Suruc per cui questo campo, circondato dalle coltivazioni di cotone, ha servizi e strutture migliori degli altri che abbiamo visitato; ma, nonostante questo, l’inferno che queste persone hanno passato rende l’aria densa come un liquido che ho paura di agitare troppo attraversandolo.

Alvise Rossi

 

943 083 081 064 008 986
22/03/2015 – Viransehir, Kurdistan Occidentale

Arriviamo poco prima di mezzoggiorno a Viransehir, che, con i suoi 250.000 abitanti, è una delle città più grandi del Kurdistan Occidentale, a circa 90 km da Urfa.
Ad accoglierci Rihan Inan Kayan, responsabile del dipartimento delle donne, con il fratello Inan Osmar.

Abitata per più del 90% da Curdi, Viransheir è una città a municipalità Curda da tre amministrazioni consecutive.
In questi 12 anni, hanno dato la priorità alla ricostruzione di infrastrutture pubbliche, prima completamente inadeguate, mentre si continua a lavorare molto sui diritti delle donne (la maggior parte poco o niente scolarizzate) e si investe molto sulla formazione dei giovani.

Luogo esemplare di questa politica è proprio il palazzo della municipalità: una costruzione in cemento armato e vetro, di poco più piccola dell’omologo palazzo di Diyarbakir.
Tutto questo spazio non è utilizzato solamente per l’amministrazione e la burocrazia, ma per la vita sociale e culturale della città:
un grande atrio con tavoli per leggere, studiare o bere il chaj,
una sala cinematografica da 200 posti, una sala polivalente con un palco sufficientemente grande anche per le rappresentazioni teatrali da 500 posti, piccole sale prove per i gruppi musicali, altre stanze adibite a corsi di varie discipline.
Il comune infatti offre gratuitamente corsi di percussioni, chitarra, batteria, basso, danze popolari curde, tango, milonga, teatro, corsi di lingue.
I corsi sono tutti gratuiti, come gratuito è l’uso dello spazio. L’accesso è libero. Chiunque può chiederne l’uso per iniziative culturali, associative, assembleari.
Il Comune è infatti gremito di gente: mentre nella sala è in corso un’assemblea, assistiamo curiosi a lezioni di tamburello tradizionale curdo, chitarra classica, prove di una band rock, un corso di danze tradizionali curde per bambini, gente che studia ai tavoli con un chaj in mano. Molti i giovani, notevole il rispetto e la pulizia degli spazi. Un centro sociale, ma senza fricchettoni e djembè…
Un luogo di amministrazione, ma nel contempo di formazione, in cui si costruisce la consapevolezza civile, sul saper condividere spazi, cultura, curiosità, sul far dialogare interessi e necessità diverse, dove far vivere le proprie tradizioni senza temere di mescolarle con altre .
Un esempio di quel che i curdi intendono per democrazia partecipata, da cui dovremmo trarre insegnamento proprio ora, in un momento in cui gli investimenti sulla cultura e la socialità stanno venendo falcidiati in favore di grandi eventi o iniziative di facile consumo .
Lucia Zaghet

1 Comment

  1. Martina Luciani ha detto:

    Lettura importante ed emozionante. Ringrazio per aver reso possibile questo approfondimento.

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